Sofia Zoli, classe 2001, sopravvive nell’umida Pianura Padana. Organizzatrice e presentatrice di eventi, performer e slammer. Nel 2022 fonda In Bianco a Faenza e nel 2024 DuoCane a Bologna. Attitudine rock, ore piccole e recensioni sui caffè delle stazioni FS del nord Italia, tra i miracoli il disadattamento. Poca pazienza, poca altezza, pochi soldi. Ha l’attitudine e la musicalità, l’abbiamo intervistata.
Benvenuta Sofia, e grazie. Dunque, la tua presenza nel mondo dello slam non è che di un paio di anni fa, tuttavia al suo interno ti ci sei mossa molto e in diverse vesti. Com’è stato il tuo incontro col poetry slam, e com’è cambiata la tua visione attorno ad esso man mano che ne accumulavi esperienze?
Ciao Isidoro, è un piacere per me parlare con te! Ho partecipato al mio primo slam nel dicembre 2022. Il poetry slam mi ha permesso di comprendere che c’era uno spazio grigio, un qualcosa a metà tra la letteratura che avevo studiato per anni (ho frequentato 5 anni di Liceo Classico e 3 discontinui di Lettere Moderne) e quella prosa decisamente poco compatibile con la mia incostanza. Negli anni passati, complici tra le tante il mio estremo perfezionismo e la forte autocritica, scrivere era alle volte questione di dovere (temi, ricerche, appunti) e le altre volte, nella sua circostanza più creativa e artistica, un non troppo sincero tentativo di essere qualcosa di diverso da ciò che avevo intorno; sono cresciuta in contesti piccoli e spesso poco ambiziosi, dove l’essere validi era proporzionato all’adattamento a percorsi, a mio avviso, omologanti e spesso avvilenti. L’adattamento è uno sport che pratico poco e male, in generale – e forse per fortuna. A coronare il mio definitivo avvicinamento al poetry slam è stato il palco, la possibilità di interpretazione del proprio – e per quanto fastidioso, anche una buona dose di egocentrismo. Il mio viaggio, che ora mi permette di scriverti queste parole mentre sono in movimento, è stato fortunato, accompagnato da volti amici e confessioni che avevo necessità di fare. Ecco: mi affascina pensare al poetry slam come un movimento, le Giubbe Rosse, anche se qui spezza il fascino la nota dolente e distante del mio percepire il contenuto di ciò che avviene nello slam come diverso da quello che considero poesia. E ripartendo dall’inizio, il primo Poetry Slam a cui ho assistito mi lasciò dubbi importanti sul fatto che fosse effettivamente poesia quello che avevo visto e che ad oggi, dopo due anni e quasi 130 slam, continuo a credere legittimi. Sono giunta alla considerazione che le due cose abbiano caratteristiche ben diverse e che l’ambizione del poetry slam che ho conosciuto in questi anni nel voler essere a tutti i costi poesia sia, e mi scuso per la crudezza di tale espressione, una sorta di accanimento terapeutico. E qui inizio ad essere antipatica. Vedi, a me sembra che i termini poesia e poeta siano fortemente inflazionati, e a volte non solo da parte di chi assiste e organizza, che per semplicità magari predilige usare tali definizioni, ma anche da chi partecipa. Eppure, non solo trovo che sia improbabile riconoscere la storia nell’istante in cui accade (non ricordo se fosse Marc Bloch a dirlo) e nello specifico di questo discorso riconoscere un contributo artistico nella sua importanza nel presente, ma credo anche che l’idea di poesia di cui disponiamo forse è diventata così vaga da essere usata per tutto quello che avviene, per esempio, su un palco di poetry slam. Qualche giorno fa parlando con Luca Rizzatello del podcast Come un taser tra le rose in preda alle mie cospirazioni (che alla fine di questo si tratta) ho detto nel modo più sincero, complice l’avanzata tecnologia degli audio Whatsapp che nascondono molto meno rispetto alla scrittura, “non credo né che ognuno possa essere poeta, nè che la poesia sia ovunque”. Non ho approfondito ulteriormente, ma provo a farlo qui. Credo che sia a metà tra presunzione e ingenuità definirsi poeti, in primis per una questione di “assenza di posterità” a favorire il riconoscimento di un contributo artistico, criterio che potrebbe anche non essere tanto necessario, ma la questione si complica nell’istante in cui il metodo di definizione è così tollerante. Posso definirmi pittore perchè dipingo un quadro, o musicista perché so fare la cover di Polynesia di Gazzelle con la chitarra? Personalmente trovo ugualmente buffo che chiunque scriva due righe in rima su un foglio e prenda in mano un microfono sia poeta. Tra l’altro l’idea di poesia di cui disponiamo ha margini parecchio ristretti, soprattutto nell’opinione popolare (che di certo potrebbe soffrire di grosse mancanze, ma la lingua la fa il parlante): alla domanda “dimmi un poeta”, rito di iniziazione dello slam, le risposte più quotate sono Ungaretti, Montale e in qualche caso Leopardi. Come già detto, io ho studiato una letteratura necessaria in un modo altrettanto necessario, fatto di parafrasi e definizioni, ma mi assumo la responsabilità di una provocazione: abbiamo chiamato epigrammi quelli di Catullo, poesie ermetiche quelle di Ungaretti. Petrarca scrive sonetti, D’Annunzio poesie. Dante e il poema allegorico-didascalico, Montale e la poesia. Senza dilungarsi troppo, trovo che l’idea di poesia sia fortemente relegata, complici il mediatico e l’alfabetizzazione, al Novecento. Per quanto sia una teoria che fa acqua da tutte le parti, il punto a cui voglio arrivare è: ma se la definizione di cose simili è diversa e diversamente riconosciuta nel tempo, perché affidarci a una definizione che forse non fa più per noi? Sento fastidiosa questa necessità di definirci poeti, richiamando quindi un tempo che aveva criteri tali per cui probabilmente non lo saremmo mai stati, e credo fortemente che ci siano le basi per la creazione di nuove definizioni che possano evitare il fraintendimento con un pubblico che nella poesia vede, a ragione, altro. Ci siamo adattati, appoggiati su qualcosa che non ci appartiene ma di cui vogliamo raccogliere i frutti, senza accorgerci che nel differenziarle le cose non perdono valore. È evidente la differenza tra un ritratto pittorico iperrealistico e un ritratto fotografico, dove pittura e fotografia constano di una diversità di mezzi, tempo, prodotto e intenzione: eppure il valore non è paragonabile, è intrinseco. Così credo sarebbe giusto in un ambiente come quello del poetry slam svolgere un’analisi profonda e avanzare il dubbio, piuttosto che adagiarsi in una bolla dove sia mai un giudizio negativo o peggio ancora l’ipotesi che quel pezzo comico (che ruba senza troppa vergogna a battute di stand up comedy), quel pezzo di monologo (assolutamente valido ma tecnicamente lontano dalla poesia), quella cosa brutta e basta che il “poeta” di turno può aver scritto, possa NON essere poesia. In conclusione io mi sento parte del poetry slam, mi sento parte molto meno delle definizioni che si arroga; amo il poetry slam, amo molto meno il buonismo che impedisce un giudizio sincero sul testo. Credo immensamente nelle potenzialità del poetry slam, ma credo altrettanto che per realizzarle abbia necessità di allontanarsi da forme nelle quali non può adattarsi, e mettersi in mutande piuttosto che in strettissimi corsetti, liberamente ritagliare nuove forme da un lenzuolo e finalmente essere senza troppe contraddizioni.
L’anno scorso è nato Duocane, il collettivo dal nome simpatico col quale tu e Giuseppe Armillotta avete cominciato ad organizzare slam ed eventi collaterali, partendo già da subito con l’intento di coinvogere altri collettivi attivi nelle regioni vicine e altre realtà – dalle battle di freestyle in collaborazione col cypher bolognese di Sanfra al progetto grafico Duemadonne in collaborazione con Madonnelettriche. Qual è il vostro approccio agli eventi di poesia?
DuoCane nasce nell’aprile 2024 con una parte riflessiva, appassionata e competente in materia poetica, quella di Giuseppe Armillotta, e con una parte impulsiva, giudicante e altrettanto competente (spero, almeno), la mia. Sicuramente la visione condivisa è proprio quella del fascino del movimento poetico, curioso di conoscere e arricchirsi tanto quanto di tagliare e bruciare altre cose. Abbiamo fatto una doccia di fuoco di 11 eventi in tre mesi, uno a settimana, lasciandoci la piena possibilità di sperimentare e conoscere altre realtà giovani e artistiche. All’inizio della nostra esperienza abbiamo approfondito la conoscenza dello slam, delle sue correnti e delle sue personalità: abbiamo chiamato perfomer verso cui nutrivamo maggiore curiosità e stima, abbiamo ricercato e parlato, discusso, ordinato le idee e creato un collettivo pensante e provocatorio già dal nome. Al di là di un approccio sinceramente entusiasta alla “poesia”, che ci piace affrontare senza troppi convenevoli e scrupoli, la nostra intenzione è quella di ricercare l’originalità esentandoci da alcune dinamiche a nostro avviso fin troppo presenti e distanti dal nostro modo di vedere: è comune e negativa, per esempio, l’opinione sulle performance che favoriscono il consenso tramite argomenti buonisti e politically correct. Crediamo infatti in una capacità più provocatoria della scrittura e nella sua “funzione vitale” che prescinde dal pubblico e per questo non ne cerca l’assenso ma piuttosto la critica, tenta di offrire immagini nuove e storie personali. Il confronto è ancora aperto e certamente consta di ampi margini di variazione sul tema, che però resta importante affrontare nel distinguere una scrittura volta alla performance oppure alla necessità di scrivere, che sono cose ben diverse.
Un’altra iniziativa che state sperimentando con Duocane è Raw Poetry, un format di poesia in strada che mutua parte della sua struttura dallo slam e un’altra parte dalle battle di freestyle. Com’è nata questa volontà? Come sono andate queste prime settimane di sperimentazione, peraltro cominciate proprio quando le temperature per le strade bolognesi han cominciato a essere rigide?
Raw Poetry nasce dalla volontà del fare della poesia e della performance qualcosa di “crudo” e diverso dal palco del locale, dall’amplificazione e dal contesto sociale che a volte si consta di aspettative anche rigide su ciò che è la poesia performativa. Il partecipante al Raw Poetry non può essere amplificato (se no ci arrestano), non ha un palco ma soprattutto non trova un pubblico che si aspetta poesia o poetry slam. É proprio nella sua versione di strada che non permette di costruire aspettative, lasciando una maggiore libertà e apertura da parte di chi ascolta. Le prime esperienze sono state costituite da due format in particolare: il primo vede i partecipanti sfidarsi in diverse manches (cambiano di volta in volta in base al numero, qui è irrilevante parlarne) con testi originali, e il secondo offre ai partecipanti la possibilità di scegliere quali poeti interpretare, senza però farne parola con il pubblico, senza occuparsi di distinguere il proprio testo da quello del poeta – non basta, quindi, scegliere il poeta giusto; è un lavoro di interpretazione (se non di reinterpretazione) e di scelta di testi meno celebri, proprio per impedire laddove sia possibile la distinzione tra il testo di un poeta e quello di un partecipante. Questo format, non troppo lontano dal Dead or Alive Poetry Slam, prevede che solo alla fine venga richiesto al partecipante di nominare il poeta interpretato; non solo la curiosità di comprendere l’originalità o meno del testo e il suo autore favorisce ascolto, ma vuole anche dimostrare come nel sistema del voto non sempre ci sia una capacità reale di affermare cosa sia poesia e cosa non lo sia. Potrebbe vincere Hikmet su Ungaretti oppure il partecipante che in realtà ha letto per tutta la sera suoi pezzi originali; e forse, da parte mia, è questo anche un monito all’indulgenza per chiunque si sia mai trovato a dover valutare la poesia/la performance, quando è evidente la difficoltà di riconoscere una poesia scritta da un poeta affermato e quella scritta da uno che poeta non lo è affatto. Comunque sono andate bene, sono venute più persone in Santo Stefano con 5 gradi che amici negli ultimi 23 anni al mio compleanno.
Al di fuori del Duocane sono numerose le tue attività di organizzazione d’eventi culturali di diversa forma, cosa che ha un chiaro riflesso sulla solidità organizzativa e di comunicazione con cui vi presentate sui social. Quali pensi che possano essere degli aspetti importanti che un collettivo di nuova nascita debba prendere in considerazione al riguardo? Ci sono delle riflessioni al riguardo che hai raccolto nel tempo?
Sparo 3 punti. Uno: se sei una donna armati di pazienza e cazzimma – anche se sei a Bologna, patria della parità di genere. Sappi che se sei accompagnata da un uomo durante i tuoi incontri con un titolare, sia esso un amico, un collega o un compagno, le domande che scaturiranno dalle tue proposte verranno rivolte all’uomo che è con te; durante le tue risposte si cercherà rassicurazione con sguardi furtivi all’uomo che è con te; verrà considerato aprioristicamente lui il proponente, gli verrà data la mano prima che a te, in qualche caso potrebbe ricevere la proposta “vuoi una birra?” ma a te verrà offerta sempre dell’acqua; tutto ciò che riguarda gli impianti audio verrà spiegato a lui, non a te; i meriti di ciò che fai saranno sempre ridimensionati con il “senza di lui, però, non riusciresti a fare niente”. Non accanirti a cercare di cambiare le cose con le parole e le argomentazioni filosofiche sulla parità di genere, dimostra a fatti che sei assolutamente in grado di fare tutto a costo di farti male, non aver paura a parlare di soldi, prendi sempre il drink più forte (e sorridi quando lo daranno all’uomo che è con te), circondati di persone giuste, e se proprio vuoi un collega impegnati a trovarne uno come il Giusy che ti sostenga in questa lotta, che riconosca le tue capacità e sia in grado di sostenerti nel tuo percorso. Due: ambizione determinazione e pianificazione (ma non faccio ancora le cose abbastanza in grande per dare i consigli). E alcol. Tre: fatti pagare!
Al momento sei poeta, relatrice di conferenze ed host di eventi, quindi in un costante rapporto col microfono e le parole che si estende anche alla tua attività social. Hai in mente altre direzioni che vorresti prendere, con la parola?
Mi piacciono le parole e mi piace parlare, ma non mi ritengo una poeta! Al momento sto costruendo nuove strade che per superstizione non racconterò esplicitamente: posso però riferire le intenzioni con cui mi muovo. La premessa necessaria riguarda il mio modo di vivere la scrittura e la performance (“il lusso di essere ancora voce”) come mezzo di espressione, ricordo e rivalsa. Scrivere per ricordare, performare per rendere vero, imparare a guardarmi da fuori per una carezza tra quello che ho vissuto e quello che sono. Ho bisogno di essere portavoce di una me che è rimasta inascoltata e a lungo incompresa. Il poetry slam è stata la rivelazione di questo meccanismo così ormai necessario, che arriva fino a rendere piccoli figli (anche se li sento più femminili, piccole figlie) i pezzi che scrivo e poi performo, con la cadenza e il movimento e l’emozione che ad ognuno di loro appartiene; e così come mio padre, scultore, tratta ogni sua opera con un nome e individualità, fino a distinguerla da sè e farne una cosa di per sè esistente, ho imparato anche io che la dignità di quello che scrivo (per quanto ancora migliorabile) si risolve nel suo renderlo al mondo, distinguerlo da me, lasciarlo essere ciò che può essere. Sto quindi intraprendendo nuove strade per potermi rendere portavoce della mia piccola parte graffiata e altrettanto diventare il mezzo per rendere libere queste mie opere (imbarazzante confessione ma forse anche dolce, “le mie bambine”), perchè possano attraversare le strade e vedere un poco di mondo.
E poi
un giorno,
se vorranno,
tornare con qualcosa da dirmi.