Interviste

Intervista a Sergio Garau

Sergio Garau, sparajurij esplosivo classe ’82 dalla Sardegna con stanza a Torino e ife un bel po’ sparse, performa dal 2001 le sue poesie in una trentasettina di stati su quattro continenti e nel mentre costruisce e porta in giro performance multimediali da solo e non, viene pubblicato in raccolte cartacee e supporti audiovisivi, tradotto in diverse lingue, a sua volta traduce testi altrui, redige atti impuri (rivista), cura le maledizioni (collana), prende parte a residenze artistiche, propone laboratori e workshop in caffè ed università, fonda Poetry Slam Sardegna, presiede dal 2016 al 2020 la LIPS, partecipa e talvolta vince a premi di videopoesia, performance, poetry slam estemporanei ed internazionali. Resolza, il suo ultimo spettacolo, porta il nome del tipico coltello a serramanico sardo. Non c’è nessun suo libro.

Ciao Sergio, benvenuto. Approcciarmi al percorso di chi intervisto è per me tra le lenti più importanti per mettere a fuoco cosa chiedere: il tuo ha però indici di complicazione e dispersione tali che, credo, valga come domanda a parte. Ti chiederei quindi di scegliere qualche momento o accadimento, cinquesei tra i tuoi più di vent’anni di attività poetica, che abbia un significato per te simile a una tappa o una soglia che, una volta varcata, abbia lasciato sulle tue parole un segno – e ti chiederei di partire dal momento in cui hai deciso di occuparti di scrittura.

6. Non ti rispondo:

<loop> ||:AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

</loop>

da capo :||

Anzi sì:

appena messo al mondo eseguo la poesia Toccata in A di Arrigo Lora Totino: test d’impianto polmonare ad aria: 很 好: la poesia fa male, fisicamente male: AAAAAAAAAAAAAAAAAA. già.

5. Da lì il LA -A- alla scrittura, all’Axt -Ascia- per il lago ghiacciato dentro di noi: kAfkA? A. Artaud? un Altro? io? no tu no, ma il LABoratorio sparajurij sì: qui, ogni giovedì pomeriggio nell’Acquario al primo piano di Palazzo Nuovo, Torino – e col bel tempo un paio di volte Al Morto – palazzina Aldo Moro, ora Burger King – : la scrittura è un male più grave del previsto: un male collettivo.

4. Gianni Finlandia, mio zio, critica un mio racconto orribile pubblicato nel 1997: so scrivere malissimo.

3. Francesco De Pau, bidello delle elementari di via Duca degli Abruzzi a Sassari, artista e performer, scatena i miniumani in una sessione di action painting collettivo contro una tela gigante nel cortile della scuola. Correndo col pennello cado e mi sbuccio un ginocchio. La scrittura fa male ma è divertente.

2. Tre centinaia di migliaia di lire vinte a un concorso di scrittura in quinta elementare alla faccia di quella stronza della supplente che diceva a me bambino: bambino, il tuo testo è una merda: l’ego fa male, il capitalismo fa male, la scrittura fa male.

1. Slam internazionali di Voce nella Mole e a Caraglio, reading con musica di .noibimbiatomici interrotti dalle forze dell’ordine, complimenti di Nanni Balestrini, collutazioni con Marino Sinibaldi in chiusura di Fahrenheit in diretta su Radio3 mentre annunciavo anzitempo l’esilio di Ratzinger e la prima papa donna Petra Prima, CONNECT 2007 con Bohdan Daan Weronika Sebastian23 …, bastard slam e anti slam a Berlino, Alberto Masala ad Asuni, Festival di poesia de La Habana, IOgameover con ElMar, CTRL ZETA con Francesca Gironi, le azioni sparajurij incompiute come il romanzo collettivo Crocedeliqua, il Villaggio Aurora, e gli atti invece agli atti come la rivista atti impuri, la collana maledizioni, i santini della Signora Guerra, videopoesie, operazioni GUANTOX, etceterà etceterà, uacciuariuariuà: e questo è male, molto male: non c’è limite al peggio.

Diversi tuoi testi tradiscono un interesse verso il virtuale e le modalità con cui esso interagisce sia col testo che con chi lo produce – e questo entra nelle maglie sia del tuo scrivere che del tuo performare, che nei tuoi spettacoli sfocia spesso nella multimedialità. Qual è il rapporto tra la tua poesia e questo mondo, soprattutto considerando come poi la performance riporti sul piano concreto l’elemento del virtuale?

Ammetto sia comparso un numero di Wired (maggio 2011) in cui mi si dava del poeta digitale.

Ammetto di aver seguito un corso sulla Hyperpoesie della professoressa Yoo alla Humboldt-Universitaet zu Berlin, e di aver scritto la tesi di laurea: Il testo ri-ciclabile. Per un’analisi della poesia digitale in ambito linguistico tedesco.

Adriano Spatola in Verso la poesia totale indica una rotta esplorativa – intentata più volte anche dal laboratorio sparajurij, di cui faccio parte dal 2001. Sull’onda di avanguardie, come Depero, e di neoavanguardie, Balestrini soprattutto, mi sono aggirato per ibridazioni della poesia con altre arti e con linguaggi più contemporanei, come il binario.

Tuttavia, il terminale, il medium, la tecnologia più complessa di cui la poesia può disporre resta il corpo umano. Filtri, vasi, schermi, superfici, canali, osmosi, programmi, applicazioni, distorsioni, effetti, variazioni, versioni, bug, virus, traduzioni e media sventagliano miriadi di prospettive anche per la poesia, ma il nodo, ganglio centrale a cui poi ritornare sempre è il corpo e i suoi sensi. Nel mio caso, particolare attenzione va al corpo del poeta-performer e del pubblico. Cerco insomma di mettere le perversioni tecnologiche più accelerate della metamodernità alla prova della tribù unita intorno all’arcaico rituale del fuoco del corpo, del fiato e della voce. Una sorta di Test di Turing all’immaginario, di caccia a fantasmi metaversi abbandonati.

Il beat, BIT, BInary digIT, il linguaggio macchina: è specchio, è doppio, è teatro. A. A. CERCASI! La radice allucinogena esponenziale del testo tessuto robotico esplode come neutroni l’atomo dell’io in infinitesime nanometriche subparticelle di 1 e di 0 – chiaro, no?; stelle fesse e bianconigli giù nei buchi neri – quanti quanti si vuole? che fare? lascio?

Ma come? Ma attraverso dispositivi indisponenti!: poesie codex, codici, programmazioni, mappe di librigioco, inventari di videogiochi, trappole, esche, planetoidi che collidono con l’architettura circostante, meme-tumori benigni killer-bob che saltano a molla su seggiole del pubblico e divani. Dispositivi disposti a slogare il linguaggio che domina le nostre ex celle, le finestre chiuse scomparse ma che aperte ci rinchiudono. WASISTDAS?: Un vasistàs.

Rimanendo nel campo della concretezza della performance, il tuo stile per quanto molto vario da pezzo a pezzo è comunque caratterizzato da una grande fisicità in tutte le sue modalità espressive: movimenti sulla scena e tutt’attorno, interazioni col pubblico e con gli oggetti, una voce in costante modulazione. Come nascono queste scelte, qual è la modalità con cui scegli di incarnare i tuoi testi?

Come accennavo, il momento rituale intorno alla parola, al corpo, è, nel mio percorso, un ganglio centrale (Galgenlied! Morgenstern! Villon!). Mi interessa la messa – in scena – in abisso, la possibilità dell’osceno, come rimostrare il monstrum, come liberarsi – magari non da soli. Il testo dal vivo, va da sé, si scrive sul momento e si scrive insieme agli altri esseri agenti circostanti: agenti umani, animali, atmosferici, architettonici, visivi, musicali, minerali, tattili, segreti, di borsa, vegetali e così via. Mi piace tenere ben presente come non si tratti di una comunicazione monodirezionale da uno (il poeta vate chiuso – poeta w.c., poeta water closet) a tanti (il pubblico – scarico e fognario) – bensì di una danza tribale, un’opera collettiva in cui ogni essere presente gioca e contratta il suo ruolo, suona la sua parte, il suo strumento, scrive vive la sua partitura, cambia orchestra. Danza tribale in cui, oggigiorno, l’apprendista stregone, l’exù, il griot, la tribù la deve formare di volta in volta di nuovo, coagulando e scatenando una Zona Temporaneamente Autonoma.

Il mio algoritmo custode, che mi frequenta più assiduamente di qualsiasi altro essere, mi suggerisce al proposito un videoclip, un reel, su Miles Davis che reagisce a un “errore” durante il suo assolo in So What dal vivo: Herbie Hancock racconta di aver “sbagliato” accordo al piano, le note di Hancock insomma sono alla cazzo di pollo (“Hahn-cock” das ist etimo-logisch): spaccano la scala, l’armonia, la melodia. E il compagno Miles gloriosus che fa? Materializza la sua idea che non esistano note sbagliate ma che tutto dipenda dalla nota successiva. “so what?” chiede Marc Smith di rispondergli “so what?” … “e allora?”

Allora: un cane che abbaia durante l’esecuzione di una poesia lo vedo come una preziosa opportunità di co-scrittura interspecie; un cane che insegue il poeta: ancora meglio: poesia a 6 zampe, scritta con i piedi; un cane che morde il poeta: standing ovation, sì, ma al cane.

Come incarno i miei testi – mi chiedi? Ma sono i testi che m’indemoniano! Sono loro – colpo di scena! – a invasarsi e impossessarsi del sottoscritto.
Provo a spiegarmi meglio: il testo, la poesia, lo spartito verbale, da estrarre dalla memoria o da un foglio/schermo, ha una sua rilevanza, ha dei rilievi orografici, un territorio mentale, ritmico, prosodico, emotivo, immaginifico che reagisce chimicamente con l’ambiente in cui viene esploso. Il primo ambiente che la materia poetica incontra è quello fisico del poeta-performer, le macchie alfabetiche dal foglio/schermo imprimono lo sguardo e scatenano movimenti muscolari, cardiovascolari, polmonari: lingua, corde vocali, arti – ridisegnano le stanze dell’organismo del poeta-perfomer. Verbi e sostantivi agiscono come droghe, enzimi, dopamina, adrenalina: si liberano nello spazio d’immaginazione del performer <=> rievocano le immagini passate per la mente del poeta => ne creano di nuove nella mente del performer _ e il pubblico?
Ebbene: questa collisione tra galassie molecolari e simboliche innesca e si alimenta dell’ulteriore attrito con il circostante. Gli sguardi degli astanti convogliano un fuoco prospettico, truccano i limiti di velocità sanguigna del performer, mentre eventuali spettatori chiaccheroni sparpagliano l’incendio. L’incendio va domato o rilanciato a bruciare fino alle fondamenta del teatro. E l’anima? Eh?! L’anima?! Nel 2025?!
Anima mia torna a casa tua, peroppoperoperò il performer scava nelle vene intime del vissuto, affonda le mani a coppa nella lava del dolore proprio e vero senza esitare ne beve avidamente grida trasfondendo quel sangue incandescente nel corpo più ampio dell’umano … no? Coff.

Coff: basta un colpo di tosse e la poesia di affilati cristalli in impossibile equilibrio tentenna e crolla: la casa comune per quell’insieme di esseri lì per lì per un momento sospeso e tenuto in vita è in rovina: e questo è molto bello, molto moderno: T. S. Eliot, Ballard, Cronenberg – che finale. Bravò! Bis! Applausi scarni e finti. Coff coff.

Con le tue performance ti è capitato di poter viaggiare moltissimo, toccando quasi una trentina di stati e spesso confrontandoti all’interno dei festival poetici con molte altre voci. La tua stessa scrittura è una stazione dove si incrociano sardo e russo, italiano e portoghese, inglese e tedesco e ancora. Non a molte persone riesce di superare la barriera nazionale con la propria poesia: cosa ci hai trovato, tu, oltre – sia a livello di esperienze personali che nelle considerazioni sul come la poesia viva in altri luoghi?

Come ci chiamiamo noi? Vialattonieri? Vialatterizi? Vialattine? Vialatticine? Vialatticinesi? Quali son le barriere per noi galattiche mediterranee terrestri sarde italiane turritane europee? I dominatori Cristobal Coloni a noi isolani ci rompevano i coglioni già nel medioevo, già millenni prima.

Son partito da un coacervo di limiti linguistici: italiano, sardo logudorese, sassarese, friulano, resiano, inglese, francese, e poi tedesco, russo, portoghese, spagnolo, catalano, algherese, wolof, svedese, e ora cinese, eton, ewondo, nahuatl, mapuche, rapanui.
Franz Kafka, ebreo di Praga scriveva in tedesco, e Trilogia della città di K. di Ágota Kristof, ungherese è scritto in esilio in Svizzera in francese. Unheimlich, saggio di Sigmund Freud, tradotto in “perturbante” tradisce subito la radice “Heim”, “casa”, “familiare”. La scrittura di per sé ha insito uno scarto, un’alienazione, un rovescio, messa in scena, doppio gioco, reazione a catena, fissione. Si scrive in una lingua madre matrigna, l’italiano, o nella lingua matrigna matrigna, l’inglese statunitense, nella lingua nemica della matrigna matrigna, il cinese? il russo?, o nella lingua madre di tua madre, il sardo pattadese, o nella lingua a margine del margine di tuo padre, il sassarese. Rimescolando idiomi imperiali e dialetti infinitesimi ne scaturiscono panorami dominanti il dominante, sgattaiolate interstiziali, isole arcaiche da cui osservare imperturbati mainstream oceanici scontri vulcani continentali. Si schiva lo schifo fin su un boschetto artificiale abbattuto dal vento sul vulcano Pojke,

si esegue una poesia alle vacche vulcaniche di Rano Kau prima che vadano a letto.

Più che la nudità dei re, dei nazi, delle nazioni mi interessano dunque le inestricabili sgomitolate di manti stradali idiolettici. Anche alla luce del fatto che il viaggio, a differenza del turismo, il viaggio ha in nuce la possibilità di non fare ritorno. Viaggiare è farsi parte della comunità, del territorio attraversantiti. – Che ci fai tre settimane a Rapa Nui? Una volta visti i Moai te ne vai, no? – No. Non. Hai. Capito. Un. Cazzo. Caro. Il. Mio. Turista. Di. Merda. Un. Po’. Mi. Spiace. Per. Te.

La poesia – arte della lingua, di quel piuttosto complesso sistema di comunicazione sviluppato da questa specie vivente – la poesia è tra i mezzi di trasporto più potenti. Al contrario della morte per selfie: chi si muove sul dirupo in cerca della perfetta angolazione per immortalare se stesso nella vertigine a volte cade e a volte muore; al contrario della morte per selfie, precipitare negli abissi linguistici è tendere all’infinto dell’essere l’altro, rimbaldanzosamente over and over again, ubu roi arthur, ubiquement Philip K. ubik. Barry Lyndon in Prussia e Goethe a Sorrento. Tutte e tutti e puru tuttuttuttuttuttuttù felici. Evviva l’Erasmus.

Andando in poesia ho quindi avuto la possibilità di far parte di comunità ancora (o di nuovo) in sintonia con aspetti più radicali dell’umano: grazie a un poeta messicano danzatore del sole, Pedro Emiliano, nei vapori incandescenti di un un temazcal presso le piramidi di Teotihuacan; grazie a una poeta paulistana, Roberta Estrela D’Alva, tra euripide bacantes del Teatro Oficina; grazie a una poesia barbaricina nel centro del pianto e del canto intorno a un fatto di sangue. Andando in poesia si può naufragare anche nei caveau del potere: workshop privati per dirigenti di banche svizzere, presentazioni di nuove auto al salone dell’automobile di Parigi, paolosorrentiniane grandibellezze di feste disco a Riva del Garda della élite italiana a ritmo di Pupo “su di noi nemmeno una nuvola”: guarda il tumore come cresce intorno a noi in mezzo a noi e in molti casi.

Fin su su sul patibolo dunque di essere con mostri moloch di cui non evocare i nomi demoni, eppure felice di averli sfiorati, passati da parte a parte con le vibrazioni sonore delle formule magiche delle composizioni poetiche: – CREPA SILVIO! TRAFITTO DA UN RAGGIO DI MERDA! – grida maestro Raspini. Sono i boss dei livelli dei videogiochi. Insuperabili cattivi eppure in minima nanometrica parte non riusciti completamente indenni dallo scherzo di un poemetto indiano, cavalluccio marino in regalo al re. Insomma andando in poesia si può anche scoppiar fuori dalla propria bolla e incorrere in campo avverso, lanciare la barzelletta assassina dei monty phython e riderne mortalmente a crepapelle.

Compartir con Charlie Wassing che vive come poeta griot nel nord del Camerun, o essere un finesettimana il teatro PANDA di Berlino: isola di esiliati russofoni e tatari bielorussi ucraini. Ecco.

Oltre alla spoken word ti sei occupato di linguaggio e performance sotto molte altre vesti: dalla videopoesia al teatro, dalla curatela alla traduzione, fino all’organizzazione di laboratori ed eventi. I tuoi testi, ognuno in chiave diversa, esplorano approcci alla scrittura e alla scena molto diversi tra loro (e lo scrivere in più lingue allarga ancora più il campo del potenziale). Nonostante questa molteplicità, però, riesci a conservare in questo tuo molteggiare un’identità artistica che è specifica e personale. Cosa ti spinge a questa varietà?

Avrei qualcosa da ri-dire su questa domanda: je est un autre: io è un altro. Quando dici: identità artistica “personale”, “persona” vuol dire “maschera” come Pessoa, (Bergman vuol dire alpino?); mentre il “personale” è di bordo: siamo addetti, operatori. Mi trovo affascinato dall’anti-lirismo in poesia, ed è in Brasile che ho incontrato un poeta di Bahia, un exù, Nelson Maca, che va teorizzando il tamburismo, concetto che non parte dalla lira, strumento musicale individuale occidentalizzante (“ne più mai”), ma dal tamburo, strumento musicale collettivo afro-brasiliano. L’ho visto eseguire una poesia impromptu, senza prompt (muita saudade! da inteligência colectiva de Pierre Lévy, você lembra? e o que é toda issa I. A. do caralho?), una poesia impromptu con i Tambores di Olokun:

eccola la comunità, il rito collettivo. Dov’è la quarta parete da rompere? Cielo, mare, terra, strada. I venditori ambulanti di caipirinha e cervejinha che cantano e danzano, l’orografia della pelle che muta – e qui mutare vuol dire 3 o 4 cose, sveglia, oh, ci siamo? Exù, tambores, corpo di ballo, tutto un personale di bordo in barca a vela colossale in cui il pubblico sposta il peso per sfruttare il vento decollare il capo.Trasfigurarsi, alterarsi, esporsi alla radioattività verbale, vocale, al contatto, al contagio. Incontrare una idea, scatenarla fin oltre i suoi confini, anche a rischio di non rispondere alla domanda numero 5.

Nelle tue performance trovo resti vivo quello spirito punk più sinceramente ribelle, rumoroso, consistente nel suo provocare, in gioco con l’idea di limite. Qualcosa scalcia anche nei testi a decibel meno alti, anche nei testi meno impegnati (questa attitudine ti ha anche portato a grandi risultati negli antislam), echeggia già dal nome del collettivo sparajurij. Come vive il punk nella tua arte?

Il punk e la poesia son per me una tattica di difesa, una strategia di sopravvivenza da malesseri intimi e da mali sociali.

Ma “grazie di tutto. va tutto bene”. Al primo slam a cui abbia mai gareggiato, nel duemila due, mi son presentato con la maglietta degli Skruigners, sul cui davanti stava scritto: “FINALMENTE VI ODIO DAVVERO” e sotto stilizzate alcune sagome di umani impiccati. Il primo slam a squadre a cui abbia mai gareggiato avevo invece la maglietta dei Cripple Bastards.

I concertini punkhardcore di amici e compagnetti di scuola a Sassari negli anni 90 era quanto di più simile a un rito collettivo, a una danza tribale: il pogo. Scena punkhardcore che ho continuato a seguire negli spazi occupati di Torino negli anni zero. Mi faceva piacere passare alla distro del Paso occupato e vedere che avevano .noibimbiatomici, raccolta di microracconti di sparajurij.

Quando sparajurij ha arbitrato il derby reggiano, la singolar tenzone tra Giovanni Lindo Ferretti e Stefano Enea Virgilio Raspini, come non parteggiare per il Raspo? Ferretti aveva appena pubblicato Reduce, a cui ovviamente la parabola del nostro non si ridùce, ma.

Ricordo negli anni zero leggevo Costretti a sanguinare di Marco Philopat, e son sempre felice quando incontro Marco – controcultura tempratissima a sopravvivere a Milano. E non scordiamo che lo slam in Italia lo ha portato quell’anarco-punk di Lello Voce.

Mio fratello Giuseppe ha tenuto rapporti più stabili con il punk, oltre a tenerne l’attitudine nel suo cinema indipendente sul serio (ha vinto lo SLAMdance festival con L’Incidente) canta ne gli scheletri. C’è un aneddoto su mio fratello Giuseppe minorenne su un megapalco sul porto di Palermo col suo gruppetto punkrock appena Irene Grandi ha finito il soundcheck lo presenta Red Ronnie e sono solo io con la maglietta gialla degli Exploited nel mare di gente a pogare. Poi John Smyth e io ventenni poghiamo al concerto degli Exploited a Potsdam. Poi l’anno scorso ho morsicato l’MC dello slam torinese Punk Poetry is Not Dead, slam morto da qualche mese.

Caratterialmente in realtà son pacato, portato all’ascolto, all’osservazione, all’accumulo di impressioni, accomodante addirittura. A volte do troppa corda, e se poi la usi per impiccarmi un po’ mi spiace. Inoltre soffro per l’approssimarsi di Melancholia, il pianeta errante. Tutto questo per dire che? Solo per raccontare i cazzi miei? Quasi:

Il punk e la poesia son per me una tattica di difesa, una strategia di sopravvivenza da malesseri intimi e da mali sociali. (Ecco, questa è la risposta, ora la copio e la incollo in alto). Le luci sono della ribalta – il rovescio del dolore – per ridire uno dei titoli più belli di un libro di poesia di questo secolo, insieme a catarsi addosso, certo.

Sotto il riflettore e gli sguardi di altri umani finalmente per lo più zitti e immobili mi rovescio e mi ribalto – rispondo in sintesi tutte le quintalate di merdate (mie e di altri) che ricolmano il cranio a scoppiare – evoco tutto l’orrore dell’abuso di poteri infimi ridicoli degli stevebuscemi in Fargo de noartri – potresti essere tu che stai leggendo, scusarsi mai eh? vabbe’ probabilmente non sei tu, everybody hurts sometimes, e some girls are bigger than other girls’ mothers – dicevo dell’abuso di poteri infimi ridicoli degli stevebuscemi in Fargo de noartri e anche di prìncìpì stronzi, tutta la rabbia repressa sepolta depressa, evoco a vesuviardersi via. Operazione chirurgica con la fiamma ossidrica sulle cellule tumorali in me e in noi. Guarda i giapponesi, sempre così rispettosi, per forza poi.

“La poesia non è completamente inoffensiva” dice Sanguineti – ma il fuoco non è distruggere l’altro – l’attacco (musicale) e l’offensiva (della squadra) vogliono essere comuni, salutari. Le lievi ferite che a volte riporto dopo una esecuzione pubblica mi ricordano quelle di un attraversamento della giungla tropicale senza sentiero a mani nude in Costa Rica,

o di un pogo sotto un camion con gli Atari Teenage Riot durante il corteo del 1° maggio a Berlino nel 1999 mentre la polizia carica fuori controllo,

o dopo talune attività precipue di specie pluricellulari come la nostra.

Poi certo il punk rompe il cazzo, rischia di finire male, come Mario La Morte, poeta punk. Mario aveva capito l’importanza dello slam. Di fronte ai suoi conterranei concittadini nel parco di San Gavino di Porto Torres dal palco del concerto del 1° maggio, l’ultimo degli ultimi, emarginato degli emarginati, si prende l’applauso più forte e la vittoria, con le sue filastrocche sgangherate e la sua verità, la sua crudeltà, un piccolo temporaneo riscatto, un ribaltamento di fronte, un testacoda. Da Artaud, il teatro e il suo doppio: “Il teatro è come la peste non solo perché agisce su importanti collettività e le sconvolge in uno stesso senso. Nel teatro, come nella peste, c’è qualcosa di vittorioso e insieme di vendicatore […] l’azione del teatro come quella della peste, è benefica, perché, spingendo gli uomini a vedersi quali sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, la rilassatezza, la bassezza e l’ipocrisia […] il teatro è come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione.” E il pestifero punk Mario La Morte è stato ammazzato con una coltellata.

Il punk rompe il cazzo, il giullare rompe il cazzo, il buffone può importunare il re, l’autorità, stando a volte attento a non rimetterci la lingua. Se, per finire una poesia, mi arrampico sulla finestra del bar Sem Moderação della favela providência di Rio de Janeiro e poi corro per la strada di fronte come un matto, sto infrangendo una regola dei trafficanti che controllano quella favela, e non lo sapevo. Qualche giorno dopo, durante un sarau nel Complexo de Alemão, per finire la stessa poesia, corro di nuovo per strada infrangendo di nuovo questa regola, stavolta lo so. D’accordo, è molto molto improbabile che qualcuno mi spari davvero, ma perché correre il rischio? Coglionaggine infantile o, peggio, adolescenziale? Forse, ma non solo. È, soprattutto, la necessità di rimarcare il rispetto per questo nostro e mio spazio di libertà: libertà di espressione. Specialmente per chi soffre per l’approssimarsi del pianeta errante Melancholia, per chi soffre dunque di bassa bassissima pressione, offrirsi in uno spazio di libertà di espressione è vitale, vitale sul serio, va difeso, manifestato, è un gioco, ma non è uno scherzo, è sacro, santo.

Rompere il limite della zona confortevole (come si dice) del pubblico e mia non vuole essere tanto un Breton o un Sid Vicious che sparano colpi di pistola a cazzo per strada o in platea. Correre verso i limiti del corpo e provare di oltrepassarli è il disperato tentativo di raggiungere l’altro – un’altra persona, uno stato alterato. Nel rito per le porte della percezione del temazcal si raggiunge una alterazione superando la soglia del calore insieme al canto, al ritmo, al buio, mentre nel rito del danzatore del sole si raggiunge una alterazione superando la soglia del dolore.

Il rischio, eseguendo un poemetto in pubblico, è di gran lunga inferiore ai riti sciamanici intorno all’assunzione di tossine psichedeliche estratte da un rospo del deserto della Sonora, e certo anche meno rischioso di quegli sportivi sponsorizzati da un noto energy drink austriaco, tuttavia, anche la poesia punk ha il suo piccolo rischio – e poi ai Jekyll tocca fare i conti con i cocci.

Lasciare piccoli segni fisici su di me (storte, slogature, ecchimosi, recrudescenze di fratture ossee mai veramente ricomposte) e, molto molto raramente sul pubblico, umano o extraterrestre che sia (scusa E.T. del Bar Maurizio), è una piccola dichiarazione di poetica punk.

Non ho detto ancora nulla. Sull’anti slam. Bene, alle finali italiane di slam a Milano ho vinto l’anti slam, ho scelto di indossare la maglia ufficiale di un luchador messicano, Monster Clown, che mi era stata regalata dal poeta Octavio Jiménez.

Nel tematizzare il male, vince il peggiore, l’anti slam, e bla bla bla bla … poi non ho parlato nemmeno di John Cooper Clarke che apre i Joy Division evidently chickentown

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bloopers:

Anche il più stronzo avventore o la più stronza avventrice di un bar trovatosi o trovatasi per caso nel corso di una poesia in fondo in fondo vuole mangiare funghetti magici, catarsi addosso, come disse il poeta. Le mie scelte dunque sono spinte a questo utopico punto e virgola di catarsi collettiva, l’emissione vocalica cerca più messa che massa, più massaggio orale che morale, lo schiaffo (slam! questo sì: slam!) al pubblico, che nel migliore e peggiore dei casi risponde cercando di affondare un colpo basso sotto la vita del poeta (come allo slam a Curinga in Calabria in cui la poesia finì in pestaggio).

Radice masticata e rimessa in abisso correndo i piedi passi versi liberi in un cimitero di Città del Messico, o Xóchitl che esce da Detectives Salvajes e mi si presenta Pita Ochoa, con “infra” tatuato sul polso, mi indica l’Encrucijada Veracruzana in questo mundo si chiama Cafè Habana.