Paolo Agrati, classe ’74, si occupa di poesia, musica, performance e di diversi punti di intersezione tra tutto ciò – fa anche storie molto buffe su Instagram. Ha base a Milano, lo abbiamo preso al volo per parlare delle prossime finali nazionali del circuito LIPS.
Buondì Paolo, e benvenuto. Tu sei uno dei membri della prima ondata slam a Milano, parte della quale si sta occupando di organizzare e hostare le finali nazionali di quest’anno. Ti andrebbe di raccontare come hai incontrato i tuoi compagni di viaggio, e com’è tuttora lavorarci dopo le mutazioni che nel tempo hanno interessato lo slam? Attorno a quali idee si sono costruite queste finali?
Con Davide e Ciccio c’è un equilibrio fatto di mancanze, cioè ognuno di noi non sa fare una cosa che l’altro sa fare e perciò, seguendo un semplice meccanismo di compensazione, ci viene facile sopportarci e raggiungere l’obiettivo che ci poniamo. Davide l’ho conosciuto agli albori dello slam (circa vent’anni fa)
girava con uno zainetto pieno di Estathé, faceva rap e uno dei suoi progetti artistici era costruire un muro di brick che avrebbe chiamato Another brick in té wall. Riguardo a Ciccio una sera ero a Torino e la mia compagna mi disse, andiamo alla Luna’Storta che stasera c’è Ciccio Rigoli! Le risposi: e chi cazzo è
Ciccio Rigoli? Qualche tempo dopo a Ciccio fecero la proposta di venire a un mio spettacolo e lui diede la stessa risposta. È passato molto tempo da allora e di cose sia assieme che da soli, ne abbiamo fatte davvero parecchie. Per le finali di quest’anno abbiamo attinto alla nostra esperienza sia come singoli che come squadra; per mettere a punto la nostra proposta abbiamo fatto tesoro delle novità e delle scelte fatte in questi ultimi anni dai collettivi organizzatori, nei quali abbiamo osservato una forte spinta all’innovazione e alla sperimentazione. Abbiamo concentrato la maggior parte degli eventi in un solo posto che offre anche ristorazione e uno spazio esterno, proponendo una forma vicina a quella del festival. Le giornate vedranno dunque un susseguirsi di eventi perlopiù gratuiti, tra i quali un open mic aperto a tutti, un reading-presentazione di libri in cuffia, la proiezione di un documentario sullo slam, una serata di spoken word il giovedì, un aftershow con ospiti il venerdì e un dj set dopo la finale. E ovviamente gli slam.
Con Ciccio Rigoli e Davide Passoni, tra le (molte!) altre cose, ti è capitato di pubblicare Poetry Slam – Il manuale, volume dal titolo abbastanza didascalico. Quali sono state le riflessioni sullo slam che vi hanno portato a pensare alla realizzazione di un volume con questa funzione?
Il Manuale non è stata una nostra idea, ci è stata fatta una proposta da Editrice Bibliografica che aveva intuito la mancanza di un testo del genere. A differenza dei testi precedenti di settore pubblicati in Italia (Incastrimetrici e Guida Liquida) che comunque rimangono un riferimento per lo slam italiano, il nostro libro si caratterizza per un taglio, appunto, manualistico. Con un titolo che definirei perentorio più che didascalico. Per noi è stato un’occasione unica per raccogliere e ordinare non solo la nostra esperienza personale in termini di organizzazione e sviluppo dello slam, ma anche quella prodotta dagli altri collettivi italiani ed europei che abbiamo avuto modo di frequentare. Il Manuale affronta diverse questioni che si incontrano nell’organizzazione dello slam e che vanno dalla considerazione della lunghezza del cavo del microfono dell’MC rispetto alla possibilità di movimento sul palco, alla gestione dell’idea di competitività
nel gioco. Dalla filosofia legata a questa forma di diffusione della poesia, a come far quadrare i conti. E le risposte sono, a differenza del titolo, molto didascaliche ma mai perentorie.
La quattro-giorni delle finali 2024 comincerà con una serata dedicata alla poesia in musica, percorso che tu stesso hai esplorato – sia con testi tuoi che altrui – in più modalità, forte anche della tua abilità canora. Quali sono per te i punti di contatto tra cantato e recitato, nel rapportarsi con la musica?
I confini che diamo al canto, alla recitazione, alla poesia e alla musica in realtà non esistono, sono funzionali all’esigenza di costruire contenitori che rendano più facile la comprensione e la gestione di ciò che ci circonda. La musica abbiamo imparato a eseguirla con degli strumenti sempre più sofisticati ma il suono può essere prodotto anche da un bastone, da un sasso o da un rutto. Tra questi strumenti c’è anche la voce e il recitare o il cantare sono solo comportamenti e modulazioni del suono stesso. Detto ciò sono sempre stato affascinato dall’abbattimento delle frontiere che, come per gli stati, non esistono, non c’è
nessuna riga sul terreno quando si passa da una nazione a un’altra e io ho lavorato sempre con questa consapevolezza.
La domenica dopo le finali ci sarà un Antislam, nel quale la vincitrice sarà la poesia peggiore. Nella tua produzione letteraria c’è un posto speciale per le poesie brutte di Poesie Brutte, pubblicate per Edicola Ediciones nel 2019, e più in generale hai potuto esplorare altre sfumature del cosiddetto “brutto”, come il grottesco, il weird e il grezzo, in esperienze come quelle che hai avuto con la Spleen Orchestra o col tuo progetto dedicato a Tom Waits. Quale pensi sia lo spazio che il “brutto” può avere in poesia, e nella parola performata?
La poesia brutta è nata dallo sviluppo di un’attività spontanea della LIPS. Qualche tempo fa, quando stava cominciando l’invasione sui social di composizioni melense e banali simili a pensieri concepiti all’asilo, a qualcuno venne l’idea di farne il verso. Credo fu Gianmarco Tricarico con il perfetto componimento che
parafraso: “Scendo/a prendere/il pane” a dare inizio a l’iniziativa che poi prese il nome di #novabbé e coinvolse in rete moltissimi slammer e non. Dopo che l’entusiasmo si spense, continuavo ad aver bisogno di leggerezza. Uscivo da due anni di lavoro sul progetto di spoken music Partiture per un addio nel quale
avevo affrontato il tema della morte e che mi aveva fortemente assorbito. Così continuai con l’idea di costruire poesie brutte; cominciai a seguire su Instagram gente davvero improponibile per studiare i segreti brutti del loro scrivere. Mi si è cariato qualche dente certo, ma per il resto penso di aver centrato l’obiettivo. Dal concetto di brutto non solo è nato il libro ma un workshop, laboratori per le scuole e una filosofia per tendere al bello percorrendo la strada al contrario.
La tua attività ha contribuito a portare lo slam italiano in moltissimi contesti, dai festival musicali alla tv on demand, e in questo momento il fiorire della scena sta portando sempre più energie a questo diffondersi. Quali immagini – o sogni – possano essere le future ulteriori evoluzioni di questo movimento? Sono validi sia scenari rosei che di ogni altra tonalità.
La scena slam sembra da anni in procinto di esplodere ma poi non esplode mai. Certo gli sviluppi del fenomeno sono tangibili e anche le possibilità di crescita. Siamo passati dal convincere gli amici inorriditi dalla parola poesia che lo slam era una cosa figa a un folto pubblico disposto a pagare per assistere a una performance. Quando si attraversa da protagonista un periodo abbastanza lungo per avere nostalgia del passato, come avviene banalmente nella vita di ognuno, bisogna stare molto attenti a far sì che la visione ampia dell’evoluzione di un fenomeno sia uno strumento di comprensione e non un ostacolo. Nello slam di oggi ci sono cose che non c‘erano prima, sia nel bene che nel male e così avverrà in futuro. Ci sono costanti invece che è necessario tramandare ed è auspicabile rimangano ben salde. L’accezione di gioco, la definizione di slam come contenitore e non come contenuto, la cura della comunità, dell’accoglienza, l’annichilimento della competizione a favore del confronto, lo studio e la sperimentazione sulla parola e sul suono, sono alcune di queste.