Francesco Carlo, in arte Kento, è un rapper e scrittore di Reggio Calabria con all’attivo 3 libri, 10 dischi e più di 1000 concerti, oltre a un’ampia rete di progetti di varia natura che hanno più volte anche intersecato l’area della poesia performativa.
Benvenuto Francesco, e grazie. Tra rap, poesia, rubriche giornalistiche e libri, molta della tua produzione è legata strettamente alla parola – scritta o performata. Come è nata questa volontà di produzione di significato? Quando ti trovi davanti a un’idea, come decidi se tradurla in uno o in un altro di questi linguaggi?
Sono sempre stato uno che scrive, ciò che è cambiato negli ultimi anni è che mi capita abbastanza spesso di avere gente che mi legge, mi ascolta e addirittura mi dà retta quando propongo qualcosa, anche se me ne esco con un progetto azzardato e fuori dagli schemi. Ciò che mi fa venir voglia di raccontare una storia può essere riassunto in tre aspetti: se la storia è sconosciuta o poco raccontata, se posso offrire un punto di vista informato e originale o comunque inaspettato, se la stessa storia si inserisce in una prospettiva rivoluzionaria e sovversiva dal punto di vista personale o sociale. Mi spiego meglio: volendo leggere il tutto nei termini marxisti della teoria del materialismo dialettico, la realtà è un processo dinamico e in continuo mutamento guidato dalle contraddizioni interne della società e della natura. Raccontare storie all’interno di questa prospettiva può avere un ruolo chiave nel riflettere e far emergere le contraddizioni della società e le forze storiche che la plasmano.
Il tuo approccio al rap è sempre stato molto orientato alla necessità di condividere messaggi che non siano solo legati alla tua sfera personale, ma che portino riflessioni e denuncia sociale. Cosa ti ha portato a fare di ciò una delle impronte più caratterizzanti del tuo rap?
In realtà, proprio a livello percentuale di testi che scrivo e faccio uscire, ho una produzione abbastanza equilibrata tra liriche personali, tracce più leggere e altre di denuncia politica più aspra. Il problema è che gli altri rapper non dicono un cazzo di niente nelle canzoni, quindi inevitabilmente io esco come quello impegnato e pesante. È il confronto con il niente desolante e noiosissimo a sottolineare con l’evidenziatore chiunque dica qualcosa di minimamente sensato. Si sente che negli anni il rap italiano ha curato molto alcuni ambiti di scrittura, per cui ci sono dei rapper mainstream che scrivono bene d’amore, di riflessione intima, di argomenti divertenti e leggeri. La traccia dance la sanno scrivere tutti, e va benissimo. Però quando devono fare una riflessione politica, pur magari con le migliori intenzioni, c’è da mettersi le mani nei capelli e bestemmiare forte per le banalità superficiali che escono. Da questo punto di vista ho enorme speranza nei più giovani che partono da zero e sono pronti a parlare di tutto e a prendersi tutto, senza pregiudizi né limiti. Compresa la ribellione e la rivoluzione.
Per quanto riguarda lo slam, ti ci sei avvicinato abbastanza agli albori della sua diffusione in Italia e sei stato tra le prime persone a proporre al suo interno un linguaggio fortemente ibridato dal rap. Quali sono per te i punti di connessione tra poesia e rap? Come hai percepito l’accoglienza nello slam di questo linguaggio, e noti che ci siano state delle evoluzioni di questa ibridazione nel tempo?
I punti di connessione tra poesia perfomativa e rap sono molto antichi, e si sviluppano ovviamente nella cultura afroamericana e caraibica – da Linton Kwesi Johnson ai Last Poets, da Mutabaruka a Gil Scott Heron – che con straordinaria modernità ha messo insieme il verso e la performance dai tempi in cui tutti noi ancora dovevamo nascere. Era la primavera del 1998 ed ero solo un ragazzo quando, sui giornali, lessi di questo film pazzesco che si chiamava Slam, che aveva vinto la Camera D’Oro al Festival di Cannes. Dovetti aspettare quasi un anno ma, alla fine, in un cinema completamente deserto di Roma, riuscii finalmente a vederlo. Fu una rivelazione e l’apertura di una prospettiva nuova per me che ero molto giovane e molto ingenuo artisticamente. Dopo qualche anno lessi dei primi esperimenti condotti in Italia da Lello Voce, di cui diventai amico, e da lì non mi sono più fermato. In generale trovo che i rapper che frequentano gli slam sviluppino una scrittura più variegata e coraggiosa sia dal punto di vista semantico che metrico mentre i poeti che frequentano i rapper capiscono (e in effetti lo hanno capito già da un po’) l’importanza della performance, della gestione spaziale del palco e del rapporto col pubblico.
Più largamente, come senti che negli anni sia mutata la scena slam, per quanto tu la segua?
Penso che la LIPS abbia fatto un lavoro molto, molto importante nello sviluppo della scena, sia a livello di rilevanza assoluta che di espansione territoriale. Se quando ho iniziato il movimento era quasi esclusivamente a trazione settentrionale, adesso la rappresentatività si va equilibrando, anche se c’è ancora molto ma molto da fare. La cosa che non mi piace è la competitività esasperata che ha portato a cercare il consenso facile e la vittoria a tutti i costi, il che a sua volta ha generato il cerbero dei tre mali enormi e insopportabili dello slam italiano contemporaneo: chi sale a darti le lezioncine di vita, chi ti spaccia stand up comedy per poesia e infine il più tremendo, i monologhi della vagina (o del pene). C’è chi addirittura riesce a unificare questa orrenda trinità coprendo tutti e tre gli infami punti in un’unica esibizione, e a quel punto ti sanguinano davvero le orecchie. Preciso che non ho niente nei confronti degli argomenti specifici, ma se volevo la stand up andavo a una serata di stand up, mentre teoricamente siamo qui per fare e ascoltare poesia. Al che negli ultimi anni mi sono completamente tirato fuori dalle competizioni anche se resto molto spesso in conduzione, perché in effetti le voci interessanti continuano ad arrivare. E poi la scena si porta comunque dietro tanto di bello a livello di open mic, di spettacoli poetici o anche semplicemente di frequentazione con gente che ama scrivere.
Tra le attività che conduci ci sono anche dei laboratori all’interno di carceri minorili, nei quali lo strumento della scrittura rap messo nelle mani di chi partecipa diventa veicolo di narrazione, di indagine di sè, di rivendicazione. Come hai deciso di avvicinarti a questo tipo di progetto, e quali sono gli effetti che vedi?
Dare in mano una penna e un microfono a chi non ha mai avuto la possibilità di essere ascoltato è un gesto estremo ed importante allo stesso tempo. In un momento storico e politico in cui prevale la rivoltante e ipocrita retorica del decoro e di una “sicurezza” ottenuta sbattendo i ragazzini in cella, è ancora più importante supportare la sovversione dell’indecoroso e dell’insicuro. Tra il detenente e il detenuto c’è una dialettica innegabile e inconciliabile: è bene rendersene conto presto, è meglio decidere presto da che parte stare. Tornando alla prospettiva del materialismo dialettico, la critica sociale ovviamente non si può sviluppare se non è preceduta da una riflessione sulle condizioni materiali e la situazione attuale delle classi subalterne. E, senza voler scomodare la parolaccia di lumpenproletariat, è chiaro che il detenuto, e probabilmente il detenuto minorenne in particolare, rappresenta spesso uno sconfortante esempio delle dinamiche escludenti ed estranianti della nostra società. Non ci sarà vera rivoluzione senza gli ultimi, quindi non ci sarà vera rivoluzione senza i detenuti.
Illegale, il tuo podcast, è un viaggio attraverso la cultura urbana alternativa di sei diverse città, a tracciare una mappatura di un universo spesso sommerso, ma vivido ed espressivo. Quale credi che sia l’energia che pulsa in questi contesti, cosa caratterizza l’urgenza della controcultura? In un tempo come quello attuale, in cui le modalità di esprimere il dissenso cominciano ad essere sempre più sistematicamente osteggiate, quale contributo possono portare questo tipo di pratiche artistiche alla ricerca di altre vie per un’espressione non imbavagliata?
Più aumenta la crisi e la repressione, più aumenta la necessità di dare voce alle realtà non allineate e critiche. Più il potere si fa duro e autoritario, più dobbiamo rafforzare il contro-potere. Anche questa dal mio punto di vista rappresenta una dialettica insanabile, nella quale diventa necessario schierarsi. La poesia per sua natura è uno strumento rivoluzionario, eppure nei secoli il denaro o l’opportunità hanno convinto i poeti sedersi a corte per raccogliere le briciole ai piedi del trono. Guardando ad oggi è chiaro che i soldi rimangono sempre una forte motivazione, mentre i troni probabilmente sono quelli della gratificazione virtuale sulle reti sociali. Altro che i 15 minuti di fama di cui parlava Warhol: nell’epoca del fast-fashion penso che esista anche una sorta di fast-fame, una notorietà che dura poco, vale ancora meno, ma rispetto alla quale c’è chi si vende l’anima in un modo non migliore di quello che fanno i miei colleghi rapper. Ecco: se lo scenario è questo, ciò che è veramente prezioso sono le persone e le realtà che fanno cultura ed arte non allineata, non soltanto ponendosi fuori a dinamiche subalterne al capitalismo/consumismo, ma facendo della critica a tali dinamiche la propria cifra artistica ed identitaria.