Interviste

Intervista a Francesca Pels

Milanese a Milano, Francesca Pels resiste. Laureata in Lettere – in sanscrito – ha vinto il primo poetry slam in tv in collaborazione con Zelig, ha rappresentato l’Italia allo Slam Internazionale, ora fa la maestra di cerimonia e prova a insegnare. Di recente ha curato per Rizzoli Giorni di versi. 366 poesie per un anno e portato sui palchi uno speech su dating app e fallimento, ma di lavoro dà indicazioni.

Ciao Francesca, benvenuta. Il tuo debutto nel mondo dello slam ha avuto luogo nel 2016, tuttavia i tuoi primi contatti con la scrittura – in versi e non – risalgono ad anni prima, alla street poetry ed ai blog. Ti andrebbe di raccontarci di quel passato (in cui, tra le altre cose, è nato anche il tuo nome d’arte) e di come da esso tu sia arrivata allo slam?

Ciao, Isidoro. Benvenutə a chi ci legge.

Aiuto, siamo sicuri che interessi?

Proviamo, sintetica: al liceo è nata Pels, con l’obiettivo vano di firmare i miei scritti online, senza essere scoperta. Al primo anno di università desideravo far prendere più aria alle mie parole, quindi la prima installazione in metropolitana e la poesia di strada e la fortuna di essere notata subito da la Repubblica. Quando decido che volevo anche incarnarle, le parole, arrivano gli slam, il primissimo con Ingrosso e Tricarico. Lo vinco, mi piace vincere, ma di lì a poco capisco che è la vittoria meno preziosa che offra il poetry slam – questa me l’ha suggerita Gramellini.

I miei primi contatti con la scrittura, però, risalgono a un imperfetto più remoto. Alla prima media, se ci interessano le prose, o a quando disegnavo lettere in età prescolare, senza sapere ancora che servissero a montare e smontare le parole, di fianco al mio nonno dalla triplice identità.

Ripenso spesso alla prima parola che ho imparato a scrivere: no.

Con la tua doppia veste particolarmente rodata di performer ed organizzatrice sei a buona ragione considerata fra le voci centrali dello slam milanese e nazionale, che hai potuto osservare nel suo evolversi. Com’è stata questa evoluzione? Ci sono osservazioni che trovi notevoli, nel considerare la situazione attuale?

“Fra le voci centrali dello slam nazionale.”

Puoi dirlo forte, ma non dirmi che lo dici a tutti.

Dal mio osservatorio quasi decennale lo slam è un Gattopardo.

Prendiamo un ragazzo: si chiama Tancredi. Una sera si dà appuntamento con gli amici in un locale e tra una birra e l’altra, un sorriso e l’altro, mentre capisce che gli occhi di Angie lo guardano meno di quanto vorrebbe, a un certo punto sente una voce amplificata: sì, proprio tu, ragazzo con la maglietta rossa; ehi, come ti chiami? Tancredi partecipa al suo primo poetry slam. Alla fine della serata si avvicina al palco, intercetta una persona che ha visto davanti al microfono e chiede come fare, per fare quello che ha visto fare. Si segna un nickname e se lo mette in tasca, qualcuno direbbe che è solo una memoria rimasta nella barra di ricerca su Instagram, in verità è un pezzo del bene più scarso: la speranza. T. avrà l’occasione di andare sul palco, avere un po’ di silenzio, magari un applauso, strappare un reel magari, intercettare un like di Angie o di una nuova Angie. C’è solo un problema: tocca scrivere qualcosa.

Questo mi sembra cambiato.

Quando ho iniziato a fare slam, prima scrivevi e passavi anni a maturare il tuo peculiare disagio, a curarlo, a rifiutarlo, nasconderlo, odiarlo e accettarlo. Poi scoprivi che esistevano delle occasioni chiamate poetry slam, dove quella roba senza fissa dimora che avevi prodotto, poteva fare amicizia. Ci andavi e il resto è storia.

Oggi scrivere ed esibirsi mi sembra che spesso si scambino di posto e mi chiedo come modifichi lo slam e anche me, che ne faccio parte.

E qualcosa che invece non è cambiato?

Facile: ci sono poche poete. Chissà perché. Di certo, non perché ci accontentiamo dello status quo e se solo sussurri che la Lips è maschilista, provochi un fastidio, che non ti dico. Infatti mica te lo dico. Figurati. Io sono una donna e sono fra le voci centrali dello slam nazionale. Sta arrivando il Risorgimento. Tancredi, ricordati di mandarmi la bio.

Alla fine del 2024 è uscito per Rizzoli/Mondadori Electa Giorni di versi. 366 poesie per un anno, un’antologia da te curata nella quale si alternano voci poetiche da tutti i periodi della storia, e non mancano alcune voci dall’universo slammistico. Com’è nata l’idea di questo volume, e come ti sei trovata nel realizzarlo?

L’idea del volume è di Rizzoli, ma l’aggiunta di voci slam è tutta mia.
Volevamo un libro che proponesse la poesia come rituale quotidiano; fra i vari journaling, meditazioni e diecimila passi, non sembrava mica male azzardare l’abitudine della poesia. Così, in mezzo a tutte le difficoltà che un libro di una casa editrice di grosse tirature comporta, ho iniziato a radunare versi e persone per un totale di una poesia al giorno per tutto l’anno e ho scoperto che curare mi piace e mi viene anche piuttosto bene, alla faccia dell’ipocondria.

Un ruolo che frequentemente rivesti, spesso con l’accorata spalla Ciccio Rigoli, è quello dell’MC. Al netto della sua necessità all’interno del format stesso, la figura in sè spesso non è al centro delle riflessioni dei poeti che la rivestono. Quali sono le tue idee attorno alla nobile arte dell’MCing? Come hai deciso di cominciare anche ad organizzare e presentare slam?

La maestra di cerimonia (la maestra, la maestria, la maestranza di cerimonia) fa la serata, secondo me. È nostra responsabilità se va giù, va su, va bene o va male, va a destra, a sinistra, nella noia del centro. Poi, certo, la poesia la portano i partecipanti, ma è di nuovo compito dell’mc apparecchiargli il giusto spazio per farla bene – e anche decidere a chi dare parola e a chi no.

Se posso spacciarmi un secondo per astrologa della Lips, la sfida di questo nuovo anno per il segno dell’mc è di rinnovarsi: salvarsi il più possibile dalla routine del mestiere e salvare il mestiere dal logorio della routine, se vogliamo sopravvivere e far sopravvivere il poetry slam. Magari rassegnarci che a qualcuno viene bene, a qualcun altro, per ora almeno, meno, e che dopo un secolo come mc ci sta anche ritirarsi e su questo dovremmo dedicare un’intera intervista alla professionalizzazione del poetry slam e alle sue derive, meno panoramiche di quanto ci servirebbe.

Io ho iniziato, perché volevo provare e continuato perché – come da poeta – mi veniva bene ed è un lavoro pagato più facilmente di quello dei poeti. Confidiamo nel Risorgimento.

Eccettuate alcune eccezioni, la tua presenza sul palco è perlopiù circoscritta all’attività slammistica. Ci sono stati, o ci sono al momento, tuoi pensieri circa l’eventualità di portare qualcos’altro al pubblico – a forma di spettacolo o in qualsiasi altra modalità?

Sì, negli ultimi mesi ho potuto fare uno speech su fallimenti e dating app, che mi ha innescato qualche nuovo e vecchio desiderio – pubblicare un libro, per esempio, portare in giro uno spettacolo tutto mio. Ma proprio in questi giorni rischiano di bruciarmi uno dei titoli più moderati: Mi chiamo come il Papa, se fosse una persona migliore.