Filippo Capobianco (classe ’98, Pavia) è autore, attore e slammer. È stato campione italiano LIPS nel 2022, cosa che poi lo portò a vincere anche la Coupe du Monde de Poetry Slam 2023. Gira un po’ qui e un po’ là col suo spettacolo Mia mamma fa il notaio, ma anche il risotto e nel 2024 ha pubblicato il suo primo libro Le Supernove non fanno rumore / e tu tossisci a teatro?. Ha una passione per i titoli brevi.
Buondì Filippo, benvenuto. Partiamo dal teatro, vuoi? Questo linguaggio caratterizza molto la tua poetica, la tua scrittura e, bè, anche il tuo stare sul palco. Com’è stato il tuo incontro con esso, e come pian piano lo hai fatto dialogare con ciò che scrivi? Qual è il punto attuale della tua ricerca al riguardo, quali sono le modalità che al momento esplori?
Ciao Isidoro e grazie della chiacchierata! Partire dal teatro è l’unica cosa che so fare, quindi daje forte iniziamo in sprint. Il Teatro – con la T maiuscola, da leggere con la voce di Jannacci come se fosse un soprannome lombardo (es. “il Nani” o “il Bepi”) – l’ho incontrato durante il liceo e poi non ho fatto altro che farlo, guardarlo, pensarci e parlarne per i successivi dodici anni, per la gioia dei miei amici e delle mie amiche ai quali invece interessava di più la celeberrima pratica del sesso. Sfigatə.
La scrittura è un’altra storia. Posso dire di aver incontrato la scrittura nel momento esatto in cui ho incontrato il poetry slam. Oh, intendiamoci, scrivevo anche prima, però la prima volta che ho ascoltato un brano di slam poetry (Harry Baker – A love poem for lonely prime numbers, durante un TedTalk che trovate su YouTube) mi è venuta questa strana sensazione alla pancia che avevo incontrato qualcosa di importante. Il punto fondamentale – me ne rendo conto a posteriori – è che scrivere poesie mi diverte quanto stare su un palco. Il motivo è che in entrambe le pratiche ritrovo la dimensione del gioco; nella poesia: giocare con i suoni, gli incastri, il ritmo, le immagini, le rime. Mi ha liberato la testa, la quale – essendo io di natura “”abbastanza”” cervellotico – quando scrivevo in prosa si incartocciava su sé stessa e sul concetto che voleva provare ad esprimere. Far dialogare teatro e poesia, poi, è stato naturale: nei poetry slam ci sono un palco e un pubblico, dunque a mio modo di vedere è necessariamente una pratica teatrale.
Al momento sono in ricerca, sì, grazie di aver usato questa parola. Sto provando tante cose diverse, ma credo unite dallo stesso pensiero: la poesia non è solo un’arte in sé, ma è anche un linguaggio; è un modo di usare le facoltà comunicative umane per raggiungere luoghi emotivi e razionali remoti. La mia ricerca al momento si concentra sulle possibili ibridazioni tra il linguaggio della poesia e altre lingue, sia teatrali che non. Uscire dalla modalità “poetə da solə sul palco che declama la sua poesia” ed entrare in terre inesplorate (o, perlomeno, terre ancora molto esplorabili nel contemporaneo).
Tra i tuoi progetti più recenti che sono sbucati alla luce c’è il tuo progetti di poesia con musica Arrivano i barbari, che per ora ha visto giusto due brevi restituzioni al pubblico ed è progetto ancora in divenire. Puoi dirci com’è nato il progetto e a che punto di lavoro siete?
Ecco, questo è un esempio di ciò che dicevo prima. Arrivano i barbari è un progetto che permette a me di fare una cosa che non avevo mai provato prima – cioè di lavorare in sala prove con dei musicisti sgravati – e intanto sperimentare con diverse forme. L’idea è nata anni fa – ricordo di aver letto ad alcuni compagni di viaggio un primissimo embrione di testo sulle scalinate della chiesa di Curinga (CZ) nell’estate del 2022, ma i primi appunti sul quaderno risalgono addirittura al 2020 – ed esplora il tema della barbarie. In poche parole, i barbari sono coloro che non parlano la lingua dell’Impero (e infatti tartagliano, Barbero docet: barbarbarbar) e quindi fanno paura, ma sono anche coloro che hanno maggiori possibilità di proporre un’alternativa a chi la sta cercando. Ma chi sono i barbari oggi? Da dove arrivano? Come li riconosciamo? Arrivano i barbari si interroga anche su come funzionino quei testi poetici che possono squarciare l’immaginario collettivo e accompagnarsi a una rivoluzione. Inni, cori, canti generazionali, canzoni popolari. Alcuni riferimenti sono, per esempio, Howl di Allen Ginsberg e Contessa di Paolo Pietrangeli. A che punto siamo? Ci stiamo lavorando. *Faccina ammiccante ma non quella con l’occhiolino che è da boomer e neanche quella col sorriso storto che è da basic su Tinder. Un’altra.*
È dello scorso anno la tua prima avventura editoriale, Le supernove non fanno rumore / e tu tossisci a teatro?, un libro dalla struttura ibrida che riesce a far convivere nel suo svolgersi molte delle tue passioni in una struttura drammaturgica solida per quanto non lineare. Com’è nato questo progetto, e come sei arrivato a scegliere questa modalità come la più adatta per quel che volevi raccontare?
Mi ripeto, dunque sarò (più) breve. Le supernove non fanno rumore / e tu tossisci a teatro? è un altro progetto che mi ha permesso di sperimentare tanto. È nato perché la casa editrice Baldini+Castoldi mi ha detto “Scriviamo un libro” e io ho risposto: “Ok”. Bella botta di culo, me ne rendo conto, decuplicata dal fatto che dopo i primi incontri hanno aggiunto: “abbiamo capito che sei matto, ti diamo carta bianca”. Ho colto al balzo la carta bianca e ho cercato di unire in un solo testo prosa, poesia, drammaturgia, divulgazione scientifica e brutti disegnini a matita. Ho tenuto insieme le cose con lo scotch, a mio parere si può migliorare, però la strada è quella che mi immaginavo e sono contento di essere riuscito a proporre qualcosa che non snaturasse l’idea iniziale. Una persona ha scritto in una recensione su Goodreads: “forse il libro più bizzarro che abbia mai letto”. Credo non abbia mai letto nulla di Pippo Balestra, ma in ogni caso sono soddisfazioni.
Il tuo viaggiare con lo slam ti ha portato anche oltre i confini d’Italia, confrontandoti coi linguaggi performativi di performer di molte altre provenienze. Da uomo di teatro, con magari nello sguardo le suggestioni di nomi come Barba, Grotowski e Turner che molto hanno teorizzato osservando l’approccio alla scena in altre culture, hai osservato materiali interessanti? Ci sono considerazioni che hai raccolto riguardo come lo slam venga inteso altrove – sia in concordanza o in discordanza da come viene letto qua in Italia?
Avrei tante considerazioni, perché ci ho ragionato parecchio. Ve ne propongo solo una. L’esperienza che più mi ha formato da questo punto di vista è stato il campionato del mondo di poetry slam WPSO del 2023, svoltosi a Rio de Janeiro. Mi sono reso conto che nei paesi dove lo slam è sentito come una pratica di rivendicazione da parte delle comunità marginalizzate, l’approccio ai tre minuti di testo è molto diverso rispetto a quello che ho visto più spesso in Europa. In Italia e in Europa secondo me accade spesso questo: di fronte a un pubblico che deve prima di tutto convincersi di aver fatto bene a venire a una serata di poetry slam – un pubblico che io mi visualizzo con le mani incrociate sul petto – la performance usa la prima parte del tempo a sua disposizione per insinuarsi nella sensibilità di chi ascolta. È una vibrazione che parte piano e cerca di sintonizzarsi, cresce mano a mano quando vede che la platea vibra alla sua stessa frequenza e poi affonda, cercando in questa danza collettiva una profondità che non avrebbe saputo raggiungere alla prima frase. Questo ipotetico pubblico dunque ha bisogno di una prima fase in cui sciogliere le braccia incrociate, una seconda in cui alzarsi in piedi e una terza in cui mostrare senza timore le vulnerabilità del ventre e del petto, così come lo prova a fare l’artista sul palco. Nelle scene Africane e Latinoamericane, invece, credo sia molto più comune avere di fronte un pubblico che aspetta solo di potersi infiammare (letteralmente, ho visto platee di centinaia di persone alzarsi in piedi e urlare nel mezzo di una poesia. Una figata) e quindi tante performance hanno un percorso diverso: usano i primi secondi per far capire con chiarezza di che cosa si sta parlando e poi crescono di immagine in immagine, di climax in climax, fino a raggiungere una sorta di catarsi condivisa. Sono momenti potentissimi. Il pubblico, dunque, me lo visualizzo già in piedi e con petto e ventre aperti al colpo. Preciso che ci sono tanti testi in Italia e in Europa che sono più simili alla modalità che ho descritto per le scene di altri paesi e viceversa: il mio è uno schema di lettura, che vale finchè vale e che cade quando deve cadere. Preciso anche che questo mio modo di leggere le performance intersecando inevitabilmente lə performer al pubblico non rende lə performer una figura manipolatoria che cerca di ingraziarsi il pubblico per avere voti più alti. Io credo che la comunicazione sia sempre dialogo, anche quando appare monologo, e che l’artista nel momento di scrivere si figuri sempre un pubblico di riferimento (“Uditorio implicito”, secondo la definizione di Eleonora Fisco in La risposta estetica nel Poetry Slam, ed. Millegru).
Assieme alla poeta e partner Martina Lauretta avete realizzato un unicum, che io sappia, qui in Italia, con le vostre poesie speculari attorno la storia d’amore tra un cosmologo e una terrapiattista. Oltre a questo ci sono stati altri tentativi di performance di coppia, per ora sopiti. Com’è vivere una condivisione umana così profonda e quotidiana con una persona con cui hai in comune anche il tuo campo di ricerca?
A questa domanda posso dare una risposta molto personale, che si rifà alla mia sola esperienza e che non include nè l’esperienza di Martina, nè quella di altre condivisioni umane profonde che avvengono tra persone che hanno un comune campo di ricerca artistica.
Martina ed io ci siamo riconosciuti e stimati prima come artisti (e infatti ci siamo messi a scrivere uno spettacolo insieme quando ancora ci conoscevamo poco o niente) e poi, in modo un po’ più generale, come persone (e come pagliacci). Credo che la poesia performativa abbia contribuito come fattore decisivo a dare una forma all’inizio della nostra relazione e che poi (per fortuna, aggiungo) si sia diluita in un orizzonte più ampio di esperienze condivise. Per me instaurare rapporti importanti (quello con Martina non è l’unico, sebbene sia decisamente il più profondo e quotidiano) con persone con cui condivido la passione per la ricerca artistica ha un valore enorme. Ho scoperto che mi arricchisce la vita come poco altro. D’altro canto, ho anche scoperto che per me è essenziale un impegno costante e condiviso nella divisione tra rapporto personale e rapporto artistico. In questo ambiente in particolare, il confine tra le due aree tende ad essere sottile e negli anni mi ha portato a incomprensioni dolorose. È una faticaccia, a volte, ma sento che mi ha permesso di coltivare legami importanti. Per concludere, è bellissimo avere una relazione quotidiana con una persona con cui è un piacere condividere le proprie ricerche, anche se il mio momento preferito rimane quello in cui ci si siede vicini nel buio di un teatro o di un cinema o di un bar in cui si sta facendo uno slam e – no, non si limona e basta, ma – si è spettatori insieme.
Ultimamente la tua attività nel circuito slam è andata un po’ riducendosi, permettendoti di dedicare più energie nel declinare la tua attività teatrale e poetica in diverse modalità. Questo ti sta lasciando, al momento, nella condizione rara di poter vivere della propria poesia – tra spettacoli, residenze, laboratori e commissioni. Quali sono al momento le cose su stai più dedicandoti? Ci sono delle tue riflessioni circa questo tuo vivere di poesia che vorresti condividere?
Al momento mi sto dedicando in egual modo a tutte le cose che hai nominato: per riuscire a rendere sostenibile questo lavoro, devo cambiarmi il cappello almeno tre volte a settimana e fare un giorno l’autore, un giorno l’attore, un giorno l’insegnante e via dicendo. Non mi lamento assolutamente, però: è il lavoro che sognavo di fare dieci anni fa ed è forse meglio di come me lo aspettassi. Soprattutto, ho scoperto che tenere un laboratorio mi da quasi più piacere che fare uno spettacolo e questo semplifica di molto le cose.
Secondo me è plausibile sognare che nei prossimi anni sempre più persone riescano a guadagnare dalla propria poesia. L’interesse nei confronti della poesia orale è in crescita e se la società trova un valore in ciò che facciamo, è giusto che si spenda per renderlo sostenibile. Fatto così è un discorso davvero sommario, ma apre a una questione che mi sta molto a cuore e che mi piacerebbe continuare a esplorare e a condividere con chi è interessato. Magari nel prossimo futuro si può pensare a una parte di questa newsletter dedicata agli aspetti economico-organizzativi del lavoro della poesia? Uno spazio di dialogo e di condivisione delle informazioni per approcciarsi – per esempio – alla produzione di uno spettacolo o alla promozione di un libro in modo sostenibile? La butto lì. Vediamo se qualcuno ha lo sbatti di leggere fino a questo punto, Isidoro. Intanto, grazie ancora dell’invito e alla prossima!