Interviste

Intervista a Fantomars

Giovanni “Fantomars” Monti è nato ad Ancona nel 1956, attualmente vive e lavora a Bologna. Pittore, fotografo, videoartista, gestisce uno spazio artistico a Bologna, Fondazza numero uno. In tutto ciò scrive anche, e anche poesie, e le performa. Ne abbiamo parlato.

Benvenuto Giovanni, e grazie. Dunque, parte della tua poesia è caratterizzata da una forte passione per il gioco con la materia-parola, coi suoi mattoncini fonetici, passione che ti ha anche portato al mondo dell’enigmistica. Com’è nato questo interesse, e come nascono le idee costitutive di questi pezzi?

In verità, come molte altre cose capitate nella mia vita, è stato un evento apparentemente casuale a spingermi verso questo tipo di testi e più in generale verso la scrittura poetica. Vidi anni fa un comico in tv che recitava una poesia monovocalica con la O, Ho l’orto [di Gianni Micheloni del gruppo poetico
Bufala Cosmica, dalla raccolta collettiva Rime Tempestose, n.d.I
], e mi sembrò subito un sorprendente e bellissimo gioco. Imparai a memoria quel testo e mi divertivo moltissimo a interpretarlo, specificando sempre che comunque non era farina del mio sacco. Proprio questo leggero disagio nel farmi bello, per così dire, con una creazione altrui, mi ha spinto al tentativo di comporre in proprio qualcosa di simile. Tra l’altro il primo di tali componimenti era di tono assai meno leggero di quelli che lo seguirono: La mamma matta manca lo scrissi per una mia amica che davvero aveva convissuto da giovane con la patologia psichiatrica di sua madre. E vedere l’effetto consolatorio delle mie parole su quella persona mi fece intuire
di poter arrivare al cuore di qualcuno anche attraverso versi connotati da un’originale gabbia semantica. Il fatto di porsi dei limiti entro i quali creare, limiti che dopo le monovocaliche sono stati rappresentati da tautogrammi, acrostici e perfino distorsioni dislessiche, oltre ad avere molto a che fare con l’enigmistica,
addirittura forse con la matematica, che pure a scuola odiavo, è un grande stimolo alla ricerca, così come avevo sperimentato nel campo dell’arte visiva, ad esempio misurandomi con la creazione di libri d’artista, mazzi di tarocchi o altre forme che esulano da quelle più frequentate nell’ambito diciamo pittorico.
Naturalmente i pezzi così assemblati richiedono un notevole lavoro di cesello e attenzione, proprio come le costruzioni che hai citato nella domanda con l’immagine dei mattoncini. Tuttavia il momento nel quale scaturisce lo spunto iniziale è sempre legato all’intuizione assai più che al ragionamento. Da tempo sono convinto che la mente razionale, quella legata all’emisfero cerebrale sinistro, debba lasciare spazio, se non proprio la guida, alla mente invece intuitiva, che è uno scrigno pieno di tesori inesplorati. Poi non credo ci possano essere rigide suddivisioni tra ciò che viviamo e sentiamo quotidianamente e ciò che ci spinge ad esprimerci scrivendo, infatti ad esempio le lettere dislessiche sono nate come strumento per fare idealmente sorridere una donna a cui tengo moltissimo, pur senza vederla da anni, e solo dopo averle spedite a lei ho pensato che potevano essere condivise anche nelle gare di poetry slam, dove in effetti, recitandole, mi sento vicino a quell’anima per cui le ho scritte.

In che modo sei arrivato al mondo dello slam, o più ampiamente della poesia performata? Avendo tu anche fatto parte del collettivo bolognese Zoopalco, qual è stato il tuo attraversamento con loro in tal senso?

All’inizio del 2016 un giovane poeta, Nicolò Gugliuzza, che per caso mi aveva sentito recitare i miei testi, che all’epoca si limitavano a cinque, uno per ogni vocale, mi invitò a uno dei rari slam che si tenevano ai tempi. Lì conobbi diversi giovani che non si erano incontrati prima nemmeno tra loro e che facendo serata
insieme, dopo la gara, decisero di fondare un collettivo, Zoopalco appunto. Con mio grande piacere e sorpresa vennero subito ad invitarmi a farne parte, nonostante la notevole differenza di età. Insomma, un riconoscimento sulla base del linguaggio comune. Di lì in avanti si sviluppò una bella amicizia e collaborazione, mirata soprattutto ad ampliare gli spazi e l’offerta di poesia orale nella nostra città, Bologna, dove tali spazi e tale offerta erano ancora appannaggio solo del circolo universitario o di entità concentrate sulla poesia classica, come Bologna in Lettere o Versante Ripido. Ci fu subito un notevole
riscontro, specie nelle serate di open mic, dove tantissimi autori, specie giovani, si presentavano per recitare i propri testi. Dopo un paio di anni ricchi di esperienze comuni molto belle e molto stimolanti nel produrre, all’interno del gruppo, nuove sperimentazioni, personali e condivise, alcuni membri pensarono, credo assai giustamente, di dare un’impronta maggiormente mirata alla ricerca e alla sperimentazione, in modo assai più impegnativo e professionale, che ha portato frutti meravigliosi come la creazione dell’etichetta poetico-musicale ZPL o dell’opera lirica E buio fu, rappresentata nell’ambito del festival sui portici di Bologna, nonché premi e riconoscimenti nell’ambito della spoken word. Ho seguito, con stima e direi orgoglio, la crescita dei miei giovani amici dall’esterno, dato che una svolta così radicale rispetto al puro divertimento disimpegnato delle slam era distante dalle mie intenzioni. Comunque siamo rimasti in contatto e certamente devo molto del mio percorso poetico al bel tempo trascorso in quel brodo di cultura diciamo primordiale rispetto alle sue diverse declinazioni successive.

Tra le tue varie attività conduci anche alcuni laboratori di poesia, entrando a contatto con diversi tipi di utenze. Potresti raccontare un po’ delle tue esperienze in quell’ambito, e quali siano i tuoi pensieri sull’utilità del diffondere e stimolare la pratica poetica?

Sono convinto che ciò che ci viene dato come capacità, senza voler parlare di talento, non debba essere usato solo per noi stessi ma possibilmente condiviso e offerto a chi potrebbe in qualche modo giovarsene. Quindi, su invito di un’amica insegnante, ho iniziato da diversi anni a condurre incontri di poesia in un complesso scolastico che comprende classi medie ed elementari. È un’esperienza molto bella, ho scoperto che pur non avendo figli riesco a comunicare benissimo con i ragazzini, forse perchè essendo il loro spirito
arrivato da poco nel mondo materiale sono ancora aperti alla meraviglia e molto capaci di intuizione. È molto facile convincerli che la poesia non è una cosa lontana e magari tediosa ma uno strumento che li riguarda, del quale possono disporre anche loro per avvicinarsi agli altri in modo gentile e per esprimere il
proprio sentire in maniera “più lieve”, come appunto ha detto uno studente di dodici anni. In diverse occasioni ho anche realizzato piccoli eventi nei quali si sono esibiti recitando testi composti a scuola e mescolando le propie voci a quelle di poeti adulti, ad esempio durante il festival di poesia che si teneva in
via Fondazza, Muri di Versi. In seguito ho avuto occasione di condurre piccoli laboratori anche in un centro diurno per persone con disagio sociale, gestito da una cooperativa, e anche lì sono rimasto sorpreso da come utenti magari anche con basso livello di scolarizzazione riescano, sapendo di venire ascoltati, a
dare voce alla loro interiorità in forme toccanti, anche se in alcuni casi molto semplici e dirette. L’ultima esperienza in ordine temporale è stata presso la Casa dei risvegli, un istituto di riabilitazione per pazienti usciti dal coma, e anche qui ho avuto risposte molto intense da parte di chi deve fare i conti con limitazioni fisiche importanti. Alla base di tutto comunque c’è sempre un flusso energetico che si
stabilisce tra i partecipanti nel creare secondo le proprie possibilità. Alla fin fine penso che la creatività artistica sia una forma di meditazione che porta chi la pratica in una dimensione temporaneamente libera dagli affanni e dalle preoccupazioni della quotidianità, anche nel caso dei bambini, che comunque i loro piccoli affanni pure ce li hanno, e provano sollievo nel manifestarli scrivendo.

Il tuo ultimo libro, Il registro delle nuvole trascorse, è un libro che racconta di viaggi su piani astrali e nei sogni lucidi e contiene anche alcune poesie. Quali pensi che siano i punti che la poesia ha in comune con questi stati liminali che esplori da anni?

Anche prima di avventurarmi nell’esplorazione delle dimensioni sovrasensibili pensavo che l’arte fosse uno strumento per dare forma a ciò che le apparenze nascondono. In qualche modo ogni creazione emerge da un piano di realtà invisibile, diciamo per semplicità dal mondo delle idee, che è comunque un mondo occulto per gran parte della sua estensione. Come ho detto nella prima risposta i miei testi, così come i miei lavori di arte visiva, seguono un processo di immaginazione automatico, che i surrealisti paragonavano alle pratiche dell’alta magia, più che nascere da un progetto razionale e particolarmente elaborato. Parlo del momento nel quale intuisco il desiderio da esaudire, la necessità interiore da soddisfare. Poi naturalmente segue la messa in pratica. Anche i percorsi che seguo nella ricerca spirituale necessitano di una parte che potremmo definire tecnica, ma ciò che mi spinge al distacco dallo stato di coscienza ordinaria è sempre legato ad una scintilla puramente intuitiva, così come le scoperte che si possono fare nel piano astrale o mentale, livelli di esistenza compresenti a quello fisico ma di diversa frequenza energetica, che regalano una comprensione immediata, indubitabile, nonostante non sia possibile, e non debba esserlo, averne dimostrazione scientifica. La sensazione di compimento che provo quando mi separo temporaneamente dal mio involucro più denso può vagamente somigliare a quella che ricevo nel constatare di aver dato forma, poetica o visiva, ad un pensiero volatile nel modo più esatto per esprimerlo. Inoltre sono convinto che l’artista abbia il mandato di portare più spirito nella materia, molto prima di doversi preoccupare che questo venga recepito o apprezzato. L’atmosfera psichica che permea l’umanità si può veramente alleggerire partendo da poco e da vicino, anche da una buffa poesia.

Tranne alcune eccezioni, la distanza anagrafica tra te e la maggior parte di chi fa slam in Italia è sensibile. Confrontandoti con le altre penne/voci che hai incontrato in questo ambiente hai notato degli approcci alla parola performata differenti dal tuo che attribuisci a questo divario generazionale?

Alle finali nazionali di Firenze dissi, scherzando, che ero indeciso se presentarmi dato che in gara c’era Pietro Spadaro, nato nel 2005, mentre io sono del 1956, ma aggiunsi che in fondo sono di fine novembre. Però poi ho chiarito che siamo tutti anime, magari con un retaggio di vite precedenti che in un bimbo può
essere doppio che in un vecchietto. Detto questo è chiaro che l’età anagrafica influisce sulle suggestioni sociali e culturali e che ciò si può riscontrare nel modo di esprimersi anche dei poeti del circuito LIPS. Certamente il notevole espandersi delle gare o degli eventi a microfono aperto ha dato modo a moltissimi
giovani di poter performare testi nei quali manifestare una propria visione del mondo, più o meno personale secondo i casi. Ciò è indubbiamente positivo, già ai tempi dei primi eventi di Zoopalco lo slogan era “fate uscire le parole dai quadernetti”. Dal punto di vista di una diversa generazione posso dire che all’aumento nel numero delle voci non sempre però corrisponde una reale proliferazione di temi o stili diversi. Ovviamente certi argomenti rivestono un’urgenza maggiore e va benissimo che siano affrontati anche più spesso, il problema, se è un problema e non una semplice osservazione da boomer, è che
ascoltando come vengono declinati si riconoscono stilemi e addirittura intere allocuzioni un po’ troppo ricorrenti, e che alla lunga possono addirittura svuotarsi di energia e significato proprio per l’eccessiva reiterazione. Poi ci sono notevolissime vette toccate anche rispetto appunto a queste emergenze umane e
sociali, faccio per tutte l’esempio di Rosalia di Gloria Riggio, che fa sentire la viva e commovente voce di una vittima della violenza maschile, in modo certamente assai più efficace di altri testi nei quali si sottolinea come quella stessa violenza sia una piaga sociale ancora presente e drammatica, ma senza
aggiungere granchè, emotivamente, ad un concetto che è già assolutamente condiviso e sentito. Comunque sono sempre molto curioso di ascoltare chi si affaccia nell’ambiente del poetry slam, ma questo indipendentemente dall’età, che certo è più frequentemente giovanile, ma non sempre. Per esempio la recente irruzione, anche piuttosto esplosiva, di Serena Zerri, comunque una pischella rispetto a me, o di Andrea Mitri, che entrambi saluto, è stata una piacevolissima scoperta.