Interviste

Intervista a Cristina Carlà

Cristina Carlà, scrittrice, poeta e slammer, nasce nel 1982. Fa parte del collettivo Slammals, con cui lavora alla diffusione della poesia orale e performativa su tutto il territorio pugliese. Ha pubblicato Il colore delle cose fragili (2019), Cartolina dal Salento (2022) e Donna Eleonora (o della bellezza sprecata) (2024), tutti editi da Collettiva Edizioni Indipendenti.

Benvenuta Cristina, e grazie. Dunque, i tuoi primi approcci alla produzione parola sono stati scritti. Qual è stata la molla che ti ha portata a voler sperimentare l’oralità?

Grazie a voi per l’invito. Sì, è vero, mi sono accorta di essere attratta dall’elemento parola attraverso le pagine scritte o da scrivere. A 11 anni ho scoperto la lettura grazie al mio professore di italiano e da allora i libri sono stati uno degli strumenti che inconsciamente ho utilizzato e utilizzo per interpretare la realtà. E anche per darmi la possibilità di ampliarla, visto che sono nata e cresciuta in una penisola di penisola di penisola. Dunque, come sono arrivata alla parola detta? È successo nel 2017: in quel periodo avvertivo la necessità di capire se quello che scrivevo e le modalità che usavo potessero avere un senso, sentivo il bisogno di un feedback che non fosse solo quello dei miei amici più stretti, una conferma di essere sulla buona strada insomma. Così decisi di partecipare a dei concorsi letterari, mi sembrava un buon modo per essere letta da persone che non mi conoscevano e che quindi non avrebbero avuto nessuna difficoltà a dirmi “lascia perdere”. Incredibilmente uno dei testi presentati – un racconto a cui avevo dato il titolo di Caliota, il termine dialettale con cui mi chiamava mio nonno quand’ero piccola – ottenne una menzione speciale e un altro testo – sorpresa! – risultò primo classificato. Si trattava in entrambi i casi di concorsi nazionali, potevo rasserenarmi. Ora, per ritirare il premio era necessario partecipare personalmente alla cerimonia, che per me voleva dire sorbirsi un viaggetto di duemila chilometri andata-ritorno. Fu il mio fidanzato dell’epoca a insistere perché partissi: non si sa mai, disse. Così mi ritrovai a Monza, davanti a un gruppo di persone venute per assistere alla premiazione. Erano sedute su piccoli cubi colorati, in legno, tutt’intorno libri. Quando mi invitarono a leggere il mio racconto, presi il mio cubo e mi sistemai di fronte a loro. Mi ricordo forte l’emozione che mi prese quando mi accorsi che durante la lettura alcune persone avevano chiuso gli occhi e inarcato leggermente il collo verso l’alto, sorridendo. Iniziai a modificare il ritmo del testo, non volevo che quel momento finisse, avevo appena scoperto qualcosa che mi faceva sentire viva, rallentavo, aggiungevo punti dove non ce n’erano, inventavo paragrafi pur di prolungare quella sensazione che percepivo nelle persone di fronte a me e che mi rimbalzava nella testa. Fu durante quella prima lettura che decisi: di questa cosa non voglio più fare a meno. Tre mesi dopo lessi di una call per partecipare ad un poetry slam, non sapevo nemmeno cosa fosse. Malauguratamente lo vinsi a pari merito con uno dei miei poeti-attori preferiti, Giuseppe Semeraro; mi montai la testa e la giostra partì. Oggi faccio parte del collettivo Slammals: insieme lavoriamo alla diffusione della poesia orale e performativa in tutto il territorio pugliese, la giostra continua a girare.

Una volta aperta alla sperimentazione, hai declinato la tua parola su diversi media: dal palco, spesso accompagnata anche dalla musica dal vivo, fino al video. Ci sono delle attenzioni specifiche che dedichi a ogni specifico linguaggio, quando ci entri in dialogo?

In verità molte delle mie sperimentazioni sono nate per caso, oppure su sollecitazione di altre persone, visto che – ebbene sì, lo ammetto – sono intimamente, irrimediabilmente pigra. Fortunatamente la mia pigrizia si accompagna spesso ad una grande curiosità e a basse aspettative, per cui la maggior parte delle volte “sperimentazione” è per me sinonimo di “gioco”. Nel 2020 ad esempio avevo scritto un testo in dialetto dal titolo Caccia al paziente zero, una storia che nelle mie intenzioni utilizzava le varie categorie social per raccontare un male insito e antico, lo stesso che un tempo lontano (ma neanche tanto) ha portato al rogo donne e uomini che hanno osato dire la verità. In quel periodo mio fratello Vincenzo, che si occupa di cinema, raccoglieva immagini d’archivio provenienti da video amatoriali, così in pieno lockdown decidemmo di creare qualcosa insieme. Il maestro compositore Toni Tarantino sposò il progetto, così dopo qualche mese mi ritrovai a produrre un cortometraggio scritto in dialetto con sottotitoli in inglese e musiche originali, selezionato al Lift Off, un festival internazionale di cinema indipendente. Vecchie pellicole Super8 o 16mm, girate in famiglia o per diletto, furono riversate in digitale e poi fatte uscire di nuovo dall’archivio per creare un puzzle di senso nuovo e imprevisto. In un momento in cui ognuno viveva il proprio isolamento con più o meno paura dell’altro, i video privati della mia famiglia incontravano quelli della famiglia Zwerling che si trovava dall’altra parte dell’oceano: due storie, due microcosmi che inaspettatamente si fondevano per raccontare una storia comune, più grande. Bello, vero? Mi piace pensare che l’arte possa servire a colmare fratture, distanze, a scoprirci molto più simili di quanto immaginiamo, fragilissimi e corruttibili, animati da meccanismi che trascendono il luogo in cui siamo cresciuti, la lingua che parliamo, il lavoro che facciamo. Ma il grano se ne fotte è nato dallo stesso tipo di “gioco”: in natura tutto va come deve andare, la vita e la morte non sono nient’altro che due possibilità vicinissime che viaggiano sullo stesso binario del fato. Qui il montaggio è stato eseguito tramite la tecnica cinematografica del found footage: il collage è ciò che fa nascere il senso, come nella vita, in cui i collegamenti delle nostre azioni possono essere logici, analogici o anche assurdi. Piano con le parole invece è uno spettacolo di poesia e musica creato insieme a Toni Tarantino: da piccoli abbiamo frequentato il catechismo insieme e – anche stavolta in maniera inaspettata – ci siamo rincontrati dopo quasi 25 anni, io autrice lui musicista. In definitiva, per rispondere alla tua domanda, posso dire che esercito spesso l’arte del lasciar andare e della fiducia nei confronti delle cose che chiedono di accadere. Ecco, tutto qua. Ho un profondo rispetto delle professionalità e delle sensibilità con cui mi capita di interagire ed è per questo, credo, che i risultati finali mi sembrano sempre dei bellissimi, enormi, inaspettati regali.

Tra i vari supporti su cui la tua parola viaggia c’è anche la carta stampata: è di quest’anno il tuo terzo libro, Donna Eleonora (o della bellezza sprecata), di cui esiste anche una versione da palco. Su cosa si concentra questo tuo ultimo lavoro?

La storia dell’ultimo spettacolo la racconto spesso perché ha a che fare con il concetto di fiducia. È nato tutto da una semplice domanda fatta per strada: ciao ragazzi, vi va di fare qualcosa insieme Nella mia ingenuità io avrei portato la mia “cosa-fatta-di-parole” mentre Daria Falco e Bruno Galeone avrebbero portato la loro “cosa-fatta-di-musica-popolare”; invece a loro il manoscritto è piaciuto talmente tanto che hanno deciso di comporre delle musiche originali trasformando in canzone alcuni miei scritti. Da un annetto portiamo in giro lo spettacolo e tra qualche mese uscirà il loro nuovo disco in cui sono contenute tra le altre queste creature che dalla dimensione scritta si sono librate verso quella cantata. Non è incredibile? Donna Eleonora è un percorso poetico che racconta e sublima storie di donne antiche e moderne: un viaggio dove le tradizioni – letterarie, culturali, sociali – si congiungono all’elemento ironico e a quello tragico. Donne moderne che non rinunciano ai loro sogni, alla loro libertà e con questo sguardo dialogano con il passato, come a dire che le direzioni possono essere diverse, pur conservando la bellezza della radice, senza mai rinnegarla. Poiché molti dei testi che costituiscono questo lavoro vengono da storie vissute o ascoltate, ero curiosa di vederle. Così ho lasciato carta bianca a Valeria Puzzovio, la quale ha impreziosito le mie parole con 21 meravigliose tavole illustrate. Dare la possibilità alle parole di evolversi e trasformarsi in qualcosa di diverso è un’esperienza a volte spiazzante: ti mette di fronte al rischio di non essere compresa, o persino di fronte a un’interpretazione imprevista, diversa da quella che avevi immaginato. Un qualcosa che ha a che fare con la disponibilità e mettere l’ego in sordina, ascoltare, accogliere, ringraziare. In quest’ultimo lavoro, quindi, si sono incontrate quattro persone e quattro arti diverse: la scrittura, la musica, il canto e il disegno. L’ho già detto che ho iniziato a scrivere per invidia nei confronti di chi sa disegnare? Ebbene sì, provo a disegnare con la penna quello che non so realizzare con la matita.

Alcuni dei tuoi testi sono scritti in dialetto, non solo tenendolo in vita ma dandone anche a elementi culturali delle terre da cui provieni. In un’epoca iperspettacolarizzata come questa, qual è la tua posizione nei confronti della rappresentazione – di parti di sè, di appartenenze, di pensieri?

Sono nata negli anni ’80 e quand’ero piccola il dialetto era bandito, non solo a casa mia ma ovunque: dialettale era sinonimo di rozzo, incolto, ignorante, trasandato. Erano gli anni in cui la gente si lasciava definitivamente alle spalle il mondo rurale in cambio del posto fisso in qualche ufficio in cui era necessario “parlare bene”. “Parla bene!” diceva mia madre quando mi capitava di pronunciare qualche frase in dialetto, “parla bene!” era – ed è ancora – uno dei tanti moniti volti a mortificare la naturalezza e l’essenza di un’appartenenza.

Livatici u travagghiu

u passaportu

a tavula unni mancia

u lettu unni dormi,

è ancora riccu.

Un populu

diventa poviru e servu

quannu ci arrubbanu a lingua

addutata di patri:

è persu pi sempri.

Lui è Ignazio Buttitta, poeta siciliano tra i miei preferiti. Dopo aver studiato un paio di lingue straniere, ho sentito il desiderio di fare un passo indietro, anzi, un passo indentro: mi piace scrivere nel dialetto che conosco, quello salentino, perché del dialetto mi piacciono i suoni, mi piace la precisione, la ruvidità, la concretezza. Mi piace pensare che ogni dialetto sia unico e originale, influenzato dalla storia e dai popoli che lo hanno forgiato, che contenga parole specifiche a volte intraducibili, parole che appartengono a una comunità e la identificano molto più che una bandiera. Per questo scrivo e recito in dialetto, perché nel mio piccolo vorrei salvare le parole, i suoni e le sfumature dall’oblio. Da quanto tempo non pronunciamo le parole dei nostri nonni? Quante ne abbiamo dimenticate? Quante svaniranno domani? Interi glossari persi insieme ai mestieri, ai mondi che nel tempo abbiamo soffocato. Perdendoci noi stessi. Sì, scrivo in dialetto perché ho paura di perdermi, di dimenticarmi, di farmi travolgere dalla vertigine della velocità che taglia interrompe frulla. È una dichiarazione, un atto di resistenza, così come lo stesso fatto di dire le poesie di fronte alla gente. Sembra una cosa semplice, una cosa “normale”, facile: e invece diverse volte mi è capitato di condividere il racconto di qualche serata di poesia e di dover rispondere alla fatidica domanda: “e P?”. P è mio figlio, che ora ha 14 anni, ma che quando ho iniziato a uscir di casa per dire le poesie era più piccolo. E P? Molte volte l’ho portato con me, molte altre è rimasto a casa con suo padre, altre ancora con i nonni. Le mie risposte potevano incontrare: facce attonite vs facce giudicanti vs facce corrucciate da un dubbio. Il dubbio che sia possibile, attuabile, fattibile, persino direi desiderabile una vita che trascenda il fatto di essere madre. Madre e basta. E P? A furia di addormentarsi su qualche poltrona della prima fila, è diventato un critico severo ed esigente, oggi mi corregge, mi dà consigli e spunti. Gli piace scrivere racconti. Chissà, magari un giorno gli chiederanno “e tua madre?”.

Tra le tue diverse attività riguardo la parola c’è anche il tuo avere cura della collana Taccuini e altre cose per conto di Collettiva Edizioni, un progetto di editoria indipendente di cui fai parte e che è anche l’editore delle tue raccolte. Come hai deciso di occuparti anche di questo? Com’è vivere un progetto editoriale dall’interno, per te – e doppiamente, avendo attraversato anche lo stesso iter per i tuoi lavori?

Collettiva è una casa editrice indipendente che pubblica donne e persone femministe. L’ho conosciuta nel 2018, quando cercavo un editore per il mio primo lavoro Il colore delle cose fragili. Delle altre realtà editoriali non mi piaceva la logica, la considerazione del libro in quanto semplice oggetto da scaffale. Collettiva Edizioni invece è una visione, un progetto condiviso, una “casa” in cui praticare e diffondere la scrittura e i saperi delle donne. Sono passati molti anni da quando le scrittrici venivano definite “piccole mele marce” nel momento in cui provavano a narrare sé stesse e le proprie esperienze, così come spiega Virginia Woolf nel suo pamphlet Una stanza tutta per sé: “Mille penne vi aspettano se avrete il coraggio di scrivere e l’abitudine alla libertà”. L’invito era esplicito, persino rivoluzionario per i tempi. Ecco, noi siamo otto donne che quel coraggio provano a esercitarlo, che si sforzano di coltivare quella libertà quotidianamente per trasformarla in azione concreta, in parola scritta e in nuova consapevolezza. Parliamo di scrittura, condividiamo riflessioni, elaboriamo strategie di crescita e a volte discutiamo, anche animatamente. Portare avanti una casa editrice indipendente vuol dire anche non affidarsi a distributori: in pratica consegniamo a mano i libri alle librerie indipendenti che hanno abbracciato il progetto, tenendoci lontane dalle logiche del mercato. I nostri libri quindi si trovano in giro, nelle piazze, nelle strade, nelle biblioteche, nelle case. Abbiamo deciso di non vendere su Amazon rinunciando sicuramente ai numeri, ma privilegiando il contatto umano e le relazioni. Desideriamo portare con noi i libri che pubblichiamo, ovunque si vada, così che la loro diffusione contamini e incontri tutto. Com’è vivere questo progetto editoriale dall’interno? Difficile ed entusiasmante al tempo stesso. Potremmo dire che è un impegno quotidiano, una forma di contagio ragionato che si trasforma in reading, laboratori di scrittura e pubblicazioni. In altre parole, la nostra è una pratica politica letteraria attiva, oltre che intellettuale, che promuove e sostiene le verità individuali, anche e soprattutto quelle sommerse, dimenticate, considerate laterali o negate. Oggi Collettiva Edizioni ha quattro collane: Taccuini e altre cose per la prosa, Prose Minime per la poesia, Le sagge e Orlando, tutte curate da persone interne alla redazione. La cura è sempre relazione. Per questa ragione non siamo soltanto autrici o “direttrici” di collane, bensì “curatrici”: ci piace tanto l’uso della parola cura, è così intima, così concreta, esatta, così capace di attivare tutti i sensi, oltre che i pensieri. In fondo è nella cura, nell’attenzione verso il mondo degli altri che ciascuno si riconosce e cresce.

Grazie, Cristina.