Serena Iacobino è ricercatrice in storia dell’educazione delle donne, teorie femministe e decoloniali, poeta e performer, con base a Bruxelles e baricentro a Firenze, radici tra il nord Europa e il sud Italia. Organizza eventi dedicati alla poesia sia in Belgio che in Italia.
Buondì Serena, benvenuta. Dunque, i tuoi studi e le tue attività ti hanno portata ad avere la tua base in Belgio: com’è lì la scena slam, e com’è stato entrarci? Avendo tu anche organizzato lì degli eventi con slammer dall’Italia, come hai trovato questo incrocio di approcci?
Bonjour Isidoro, grazie di cuore innanzitutto per avermi pensata e avermi dedicato questo spazio! In questo momento mi trovo proprio a Bruxelles, in una stanza sottotetto, parquet vecchio, due libri ancora da togliere dalle scatole di vari traslochi e la pioggia. Sempre lei, la pioggia che caratterizza le giornate bruxellesi. Non la pioggia che sembra di essere protagonist* di un film della nouvelle vague, mi riferisco invece a quel fenomeno atmosferico che si attacca ai capelli e ti inzuppa lo spirito. Se ti va ti racconto prima della città, perché ho l’impressione che bisogna capire la città, la sua sociologia urbana, per capire la poesia a Bruxelles (caso studio particolare rispetto al Belgio). Bruxelles è una metropoli che si divide in quartieri (comuni) popolari e borghesi, distinti però da “gruppi etnici” quasi a livello di ghetti, vedi Molenbeek per la comunità araba o il quartiere delle istituzioni europee. Bruxelles è anche una città bilingue (francese-fiammingo) che però si è trasformata nel tempo in una delle metropoli più multilingue e multiculturali nel mondo dopo Dubaï. Le tre lingue più parlate infatti sono il congolese (dalla sua colonia), il portoghese e sorpresa… l’italiano. Ci sono tre cose che ti fanno sentire che sei in una città multiculturale: i ristoranti di tante parti del mondo (trovo sia il mate che il poulet mafé che i cannoli siciliani), i modi diversi di guidare e forse, un pochino, i mille gruppi di poesia. Infatti in Belgio lo slam potremmo dire con tranquillità che non esiste, ma esistono gruppi di poesia (accademici, più di performance teatrale, multilingue o solo in francese o fiammingo). Alcuni di questi – ne cito due: Slameke e SpeakEasy – organizzano quotidianamente degli open mic nei quali chi vuole può iscriversi e leggere un suo testo. Lo slam arriva una volta l’anno, un po’ come il natale, in cui c’è un campionato di slam dove vengono selezionati slammers nelle principali città del Belgio (sia a Bruxelles che Vallonia e Fiandre) che si scontrano poi tra di loro fino ad eleggere l* campion* che andrà poi agli europei e ai mondiali. Che dire? Nè meglio nè peggio dell’Italia ma posso cominciare a disegnare, dopo un po’ di anni, delle cose interessanti: molta attenzione alla timidezza e alla stranezza, alla interculturalità, alle diverse maniere di scrivere, una vicinanza più forte per i temi di mobilitazione sociale (un po’ come nel rap, testi meno evocativi e più diretti), e uno “snobbismo buono” nei confronti della competizione. In poche parole, rispetto allo stesso format-slam, l’importante è salire sul palco e dire qualcosa. Non importa se ci ricorderemo o meno del tuo testo, l’importante è che tu l’abbia potuto leggere e a qualcun* magari avrà fatto bene. Quello che in Belgio chiamano slam non è il format, ma è il modo in in cui salgo sul palco e leggo le poesie. Come muovo corpo e voce. Come mi sono inserita in questo contesto? Con un filo di ammirazione, timidezza e melanconia per l’italiano innescando così l’ennesima serata di poesia ma in italiano, con Rachele Gusella (ricercatrice e poeta) e il collettivo SpeakEasy, e con Gaelane (campionessa belga poetry slam 2022), dove l’idea era di creare un ponte per l’Italia e un incontro di spettacoli tra un artist* italian* e un* belga, dando spazio anche alla spoken music. Nel 2023 siamo riuscite a fare tre eventi di questo tipo, speriamo di riuscirci di nuovo. Ci piacerebbe, anche con Olympia che ci ha aiutate molto a spingere il progetto, a spostare questa dimensione all’Istituto Italiano della Cultura. Far venire un bel pulmino LIPS pieno di poet* a preformare in un teatro. Bref, il riassunto del mondo dello “slam” in Belgio e in più particolar modo a Bruxelles è che è composto di migranti, di fuga di cervelli, di lingue mescolate e identità meurtrières. Per quanto ci riguarda, forse racchiude un po’ il dramma della nostra generazione che è scappata dall’Italia, di chi si sente sia una cosa che l’altra, o né una né l’altra. Di chi è artista, ma non del tutto. Insomma, non so se avete visto il film Dio esiste e vive a Bruxelles, ma non mi sorprenderebbe se fosse davvero così e lo trovassimo a bersi una birra Westmalle mentre ascolta poesie in un bar di Molenbeek.
Tu fai parte a pieno titolo dei Ripescati dalla Piena, collettivo di slammer fiorentino. Come sei entrata tra loro, e qual è il rapporto che hai con le attività del gruppo?
Ho conosciuto i Ripescati qualche anno fa, durante le serate di poesia-ininterrotta organizzate da Max. Rimasi subito colpita dallo spettacolo di Savogin e di Chiara Araldi e, in seguito, dalle poesie di Luca Bernardini, che mi hanno ricordato cosa significhi davvero scrivere. Con Marco dell’Omo, invece, condivido anche qualche ricordo del liceo. Chissà cosa avremmo combinato se a 16 anni avessimo fondato un collettivo poetico durante le occupazioni. Quando poi anni dopo ho assistito alle loro performance di Tekken Poetry, è stato amore a prima vista. I Ripescati hanno un modo unico e non banale di prendersi cura della poesia e delle persone che abitano i loro eventi. Con estrema delicatezza (forse anche un po’ inconsapevolmente), riescono a creare un’atmosfera di ascolto attento e di cura, sia per chi sale sul palco sia per chi è in platea. Potrebbero essere studiati come un affascinante esempio antropologico di collettivo sovversivo, che ha scelto di radicarsi nella gentilezza come metodo di lavoro. Hanno anche una grande capacità di costruire legami solidi con le comunità locali e il territorio (Firenze e dintorni), un impegno che portano avanti da anni e che continua a germogliare. Un giorno hanno avuto la folle idea di coinvolgermi nel collettivo. Si sono presentati con una maglietta con scritto Ripescate dalla piena e da allora mi hanno sostenuta in ogni mio progetto. Tra questi c’è stata la serata I versi delle ornitorinche che abbiamo organizzato insieme alla libreria l’Ornitorinco di Firenze e alla sua straordinaria libraia Lilith. In quell’occasione sei poete donne (o persone che si identificano come tali) sono salite sul palco affinché “la poesia tutta” si prendesse i suoi spazi in un evento in prossimità del 25 novembre. Anche se la distanza mi impedisce di partecipare a tutte le iniziative del collettivo ogni volta che posso do il mio contributo (ma ho tanto da imparare dai Ripescati nel modo in cui si gestisce un’organizzazione). E devo dire che ogni volta che propongo un’idea, che sia un evento o un workshop, i Ripescati mi supportano sempre. È una bellissima sensazione. Il mio obbiettivo è di aiutare il collettivo a sostenere ponti internazionali e con le comunità femministe. Invito comunque tutt* a seguire non solo gli eventi organizzati dal collettivo, ma anche i percorsi individuali di Andrea, Max, Marco, Gabriele e Matteo. La loro maturità e sensibilità artistica sono rare e preziose. Attraverso il loro lavoro continuano a creare contro-narrazioni stimolanti nel mondo della poesia e del teatro, arricchendo questi universi. Se oggi continuo a scrivere è in parte grazie a loro, e tra poco ci saranno delle sorprese in arrivo.
La tua ricerca poetica si interseca con quella che pratichi nel tuo campo di studi, tra interessi personali e dottorato, nell’esplorazione delle tematiche di visibilità, diritti e rappresentazione – la prospettiva è femminista, decoloniale e più ampiamente intersezionale. Con questo frame osservativo, cosa noti dallo stato attuale della scena slam?
La domanda è complessa, e la sua risposta è quasi impossibile in poche righe. Ci conduce però a un dibattito importante: il dialogo tra mondi poetici e femminismi. La scena slam riproduce violenza di genere, rapporti di potere e privilegi bianchi (parlo qui dell’Italia), e su questo non si scampa. Però i collettivi, come i singoli individui, possono avere ruoli fondamentali nella denuncia e mobilitazione alle tematiche dei margini e dei rapporti di oppressione (dis/abilità, colonialità, transqueernessfobia, rapporti di classe, adultismo, grassofobia, etc.), avere un impatto importante sui territori e riconoscere che il percorso di conscientizzazione, come direbbero bell hooks e Paulo Freire, è lungo e necessita di tempi di ascolto complessi e dolorosi. Pensare collettivamente luoghi della poesia e testi slam che raccontino del margine, scrivendo e posizionandosi dal margine stesso delle dinamiche sociali, dei rapporti di potere e dei sistemi-mondo, è una condizione complessa alla quale il mondo dello slam non è pronto e ricade spesso in una dinamica pop e poco decostruita. Questo è quello che mi sembra di osservare, ovviamente è un dibattito in movimento. Ne concludo insomma che è difficile trasgredire, creare contronarrative e geografie di scritture decoloniali quando la tendenza è una corsa sfrenata a produrre un nuovo testo vincente per le prossime nazionali (produci, consuma, crepa direbbero i CCCP). Una tendenza che omologa la scrittura e promuove i rapporti di forza (quindi favorisce gli uomini bianchi), piuttosto che la volontà di creare comunità critiche e di apprendimento. Sono severa, scusatemi. Dobbiamo disperarci? No! Ci sono tanti bellissimi esempi nello slam che ci stanno provando. Da dove cominciare? Forse proprio dal margine di una pagina o dai suoi angoli. Aggiungo due cose più specifiche a un discorso generale che osservo nello slam, sulle quali femminismi e poesia possono essersi utili reciprocamente: la prima è quella dei corpi, la seconda è quella della poesia social di cui molt* slammers fanno uso (me compresa!). La prima ci ricorda che lo slam non è solo voce ma è anche corpo che sale sul palco e si fa poesia, e questo corpo è politico e influenzerà la giuria, e il corpo avrà interiorizzato ciò che rappresenta (le sue identità sociali). E su questo possiamo imparare dai femminismi. La seconda è la poesia social, e qui cito Audre Lorde: “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. Questa frase la capisco in questo modo: cercare di creare una lotta dei margini attraverso gli strumenti stessi del capitalismo non ci permetterà di vincere il capitalismo. Forse in parte è un po’ illusorio pensare il contrario, pensare che in realtà i social media siano luoghi positivi dove esprimere le parole e la propria voce: ne abbiamo tutt* forse subito più i danni che i pregi. E lo stesso vale per la poesia. Non è una diabolizzazione dei social, ma è un richiamo alla riappropriazione degli spazi pubblici, dei commons, di un senso di comunità, delle strade, dei bar, dei teatri, delle scuole e università, delle biblioteche, delle risorse, dei microfoni, delle voci e dei corpi, non individuali ma collettivi. E penso quindi che su questo lo slam (quello reale e non virtuale) e i femminismi siano molto d’accordo e possano sostenersi a vicenda nella lotta alla “balena bianca”.
A lato di questo, quali sono le modalità con cui fai confluire l’attivismo nella tua poesia – in quella sfumatura che, per usare tue parole, tu stessa inquadri come “attivismo gentile”?
Provo a rispondere in modo diverso, più intimo. Il mio percorso di conscentizzazzione si intreccia profondamente con l’attivismo. Ho attraversato gruppi e ideologie diverse – dal marxismo al femminismo decoloniale – e ho vissuto l’attivismo nelle sue molteplici forme: dai confronti accesi con la polizia al sostegno sociale e al volontariato. La poesia è arrivata tardi, ma con la scrittura c’è stata da subito un’intesa: scrivere si è rivelato essere l’utensile dell’urgenza, un grido di rabbia, ma con nuove forme di delicatezza. Non più striscioni e urla, ma immagini di parole. Mi ha sorpreso nella poesia il suo potenziale di guarigione e mi ha stupita ancora di più quando mi ha insegnato che a volte è più semplice scrivere della rabbia che raccontare le proprie paure più oscure o le felicità più indescrivibili. Non a caso i miei primi testi erano tutti molto arrabbiati. Da allora ho cercato di fare un passo laterale, unendo questi due mondi: racconto le violenze sociali che vivo o osservo intrecciandole con le emozioni del sotto pelle. Questo mi obbliga a rimettere in discussione entrambe le dimensioni, sociale e personale. Ci sono riuscita? In termini di bellezza artistica forse no. Ma in termini di percorso terapeutico penso di sì. Ogni volta che scrivo un testo le sento evaporare e abbandonare il mio corpo. Questi testi avranno un grande impatto sociale Assolutamente no. Ma forse, tra una serata slam e l’altra, qualche seme di conscientizzazione è stato piantato. Insieme a quello di tante altre voci sorelle. In fine, ho scoperto un ultimo potere magico della poesia: le persone ti ascoltano di più. Ma non solo: si arrabbiano di più con te, oppure piangono insieme a te. In nessun altro ambito – né nell’attivismo politico, né in quello sociale o accademico – le mie parole sono state ascoltate o prese sul serio come nel contesto della poesia, specialmente quando il confronto avviene con un pubblico che non appartiene alla tua cerchia sicura. Ci sono stati eventi, persino finali regionali, in cui ho letto testi come Radio maschio nostalgia e ho ricevuto dei 5 dalla giuria (spesso da donne). Eppure a fine serata alcuni uomini sono venuti a ringraziarmi: obiettivo raggiunto. L’attivismo gentile può affiancare quello che, in gergo femminista, chiamiamo attivismo diretto. Entrambi sono fondamentali: ci permettono di raccontarci e di creare comunità. Per esempio attraverso l’attivismo gentile riesco a parlare di decolonialità e a esprimere la stanchezza che provo verso la mia stessa bianchezza in forma poetica. Così elaboro il mio senso di colpa. L’attivismo diretto invece mi permette di intervenire in modo concreto davanti a episodi di razzismo o sessismo. Tuttavia c’è una dimensione emozionale, quasi spirituale, che la poesia riesce a esplorare e che può insegnare all’attivismo diretto a trasformare rabbia e sofferenza in una forza transformativa. Quando sarà il momento di urlare per strada, ci andremo; quando avremo bisogno di abbracciarci e ascoltarci, ci incontreremo in un bar a leggere poesie. Chiamo attivismo gentile questa forma di delicatezza che, credo, solo la poesia (o la musica) riesce a trasmettere. Non intendo dire che l’attivismo diretto non sia gentile, ma che l’arte può creare nuove narrative. Spero, in futuro, di scoprire nuovi modi per esprimere queste sensazioni e discuterne insieme.
Recentemente ha preso vita il tuo progetto di spoken word music chiamato Orangerie, col quale ritorni a sondare le tue radici pugliesi mescolandole con un tocco d’elettronica. Ti andrebbe di raccontarcelo un po’?
Merci per questa domanda Isidoro! Orangerie è in progetto che è nato da pochissimo in collaborazione con il musicista Francesco Petitti. Da un po’ di tempo tante persone mi hanno invitata a mettere i miei testi in musica. Da un po’ di tempo avevo l’impressione di scrivere più “canzoni” che “poesie”. Avevo quindi bisogno di trovare le persone giuste e arrivarci piano piano. Il problema era che tipo di musica e quali strumenti, ma in realtà la risposta è stata abbastanza semplice: la taranta è entrata in casa mia da un po’ di tempo e fa parte della mia storia familiare. Mio padre infatti ha riempito casa di tamburi e organetti, cajon e darbouka. Lo trovate suonare l’organetto nella sua libreria, la Libreria Claudiana di Firenze. Mia madre invece canta in un coro LGBTQUI+. Abbiamo in realtà cantato insieme per anni la musica gospel e gli spirituals. I miei genitori, entrambi nati e cresciuti in un paesino vicino Taranto, mi hanno insegnato la potenza della musica contro la malinconia. Insomma non poteva che venire fuori così. Allo stesso tempo non volevo rinnegare anche il mio percorso in Belgio e le influenze di quei luoghi (in particolare dell’elettronica ma anche della multiculturalità). Così Francesco mi ha fatto scoprire il minilogue e il mondo dei sintetizzatori, dei giocattoli pericolosissimi che creano dipendenza di suoni. Cerchiamo anche di imparare e dialogare con artisti come il Canzoniere Grecanico Salentino, Piers Faccini, Rachele Andrioli (coro a coro) o Paolo Cattaneo. Orangerie è un incontro di lingue (italiano e dialetti pugliesi, francese, spagnolo, inglese, arabo, ebraico) di quadri, di culture che circolano intorno al Mediterraneo (io e Francesco abbiamo un attaccamento speciale all’Adriatico). Fa riferimento sia all’Orangerie tipico del mondo francofono nord europeo (vedi quello di Parigi), sia all’aranceto dei campi di arance nel Sud Italia (dietro il mio paesino in Puglia è pieno). Un immaginario dove il nuestro norte es el sur. Il progetto è saltuario, irregolare, non ha nessuna pretesa (anche se le meravigliose foto di Siria Ettorre fanno credere il contrario), pubblicheremo i pezzi seguendo le stomaco e le necessità del momento. Nel futuro proveremo a fare qualche concerto. Ma nel frattempo vi invito solo a entrare in un aranceto, un luogo dove chi scrive, balla e suona non muore mai.