Eleonora Fisco, classe ’97, è una poeta e performer siciliana profondamente legata al mondo dello slam. Il suo background di studi l’ha portata a concentrarsi, oltre che sulla pratica in prima persona, anche sullo studio e sulla ricerca teorica nel campo della poesia performata.
Buondì Eleonora, benvenuta. La tua provenienza letteraria è accademica, ambito in cui ancora situi molto del tuo lavoro cercando di inserire nei suoi discorsi la presenza sempre meno ignorabile della spoken word. Per le tue esperienze, come viene visto il poetry slam all’interno di questi contesti? In senso ampio come ti muovi per portare le caratteristiche della poesia performativa all’interno di questi spazi di studio?
Caro Isidoro,
mi piace pensare a quest’intervista in differita come a una sorta di lettera aperta da iniziare con tutti i crismi delle formule di saluto e di ringraziamento per l’attenzione e lo spazio.
Una cosa molto interessante di chi studia spoken word e slam poetry a livello accademico è in effetti la frequente presenza parallela nella scena artistica. Questo è molto importante per il lavoro di ricognizione dei dati e di osservazione sul campo, perché mi permette di accedere a informazioni su intenzioni, genealogie e progetti che emergono in chiacchiere fuggevoli in occasione di eventi, ma anche perché mi pone nella condizione di incarnare le domande della mia ricerca accademica a partire da quella artistica. Inoltre, sento il privilegio e la responsabilità di essere nella posizione interessante di dare voce e visibilità al movimento attraverso un tentativo di formalizzazione delle sue esperienze, spesso altrimenti destinate all’oblio in assenza di registrazioni o in ogni caso alla perdita nel rizoma di internet. Mi piace pensare al mio lavoro di ricerca accademica come a un faretto da teatro che dica al lettore: “ehi, qui c’è qualcosa di interessante da guardare”. Nell’Accademia è fra l’altro sempre più frequente un interrogarsi sul proprio posizionamento: perché per alcuni anni mi impegno a studiare proprio una certa cosa? Da dove arriva la motivazione? Le mie ragioni affondano nel fatto che il mio oggetto di ricerca è una cosa che mi piace fare ed è estremamente preziosa per me l’occasione di riflettere sulla poetica slam e spoken word, creare reti e intervistare lx artistx per poi comunicare all’esterno un output su quello che ho trovato. E considerato che lo slam nasce come controcultura in opposizione aperta alla torre d’avorio dell’Accademia, lenta ad accettare le novità e tendenzialmente elitista (Harold Bloom, il famoso critico dell’angoscia dell’influenza, definì lo slam degli esordi come “la morte dell’arte”), sono piacevolmente sorpresa da una ricezione curiosa e piuttosto entusiasta della narrazione del movimento in occasione dei convegni a cui mi capita di partecipare. Se fino al 2009 una delle maggiori teoriche statunitensi lamentava una pressoché totale assenza di riflessione critica e di costruzione di uno strumentario ermeneutico adeguato, oggi in Europa ci sono diversx studiosx che portano avanti progetti di ricerca anche collettivi. Per l’Italia il lavoro è iniziato da alcune tesi di laurea, tra cui la mia, edite o in corso di pubblicazione per la collana di studi Quaderni slam che dirigo per Mille Gru in collaborazione con LIPS.
Anche in te per prima c’è stato un movimento che dalla pagina ti ha portato verso la performance dei testi, e che tra le altre cose ti ha spinto a fondare Yawpisti a Pisa. Com’è stato il tuo incontro con lo slam? Ora che lo vivi e lo studi da qualche anno, come è mutato il modo che hai di vederlo e viverlo?
Ho incontrato lo slam in Sicilia in una sera natalizia del 2016. Un amico con cui stavo giocando a cucù, mentre mangiavamo panettone e bevevamo passito, mostrò al tavolo il video della performer statunitense Sabrina Benaim Explaining my depression to my mother, che aveva già allora alcuni milioni di visualizzazioni. Il suo commento nel presentarcelo fu sulla linea del “O mio dio la poesia su YouTube dove andremo a finire signora mia”. Io invece, che proprio in quei mesi stavo seguendo un corso sulla poesia italiana contemporanea che partiva da Leopardi (eh sì) e sanciva la perdita dell’aura e del mandato sociale dei poeti, rimasi molto colpita. Marco Gorgoglione, altra anima di Yawpisti, era allora mio collega della triennale di Lettere Moderne all’Università di Pisa e, spinta dall’audacia del gruppo, scrissi alla pagina Facebook della LIPS per chiedere di organizzare un evento a Pisa. Ci sono tantx studentx, potrebbe funzionare, precisai per creare un po’ di hype. Mi rispose l’allora presidente Sergio Garau dicendo che era una bellissima idea, ma che non avevano nessuno sul posto per attuarla. Se volevo, potevo organizzarlo io. Il primo evento di Yawpisti fu un successo inaspettato, al teatro Lux di Pisa vennero più di 120 persone e iniziò allora una serie di eventi seguitissima, con alcune puntate estive in Sicilia e in Basilicata, dove le nostre origini terrone ci portavano a rientrare. Per vari motivi legati al mutare delle vite, Yawpisti si è sciolto nel 2021 e io ho iniziato una stagione di nomadismo che mi ha portata a trasferirmi dove la scena poetica (e/o accademica) mi sembrava più interessante. Se in Italia c’è ancora un po’ di confusione anche tra chi lo pratica nella dicitura maschile/femminile lo slam/la slam (format competitivo il primo, forma poetica in via di codificazione la seconda), il mio interesse si è decisamente spostato oggi verso la spoken word al di fuori della dimensione della gara. Mi sembra in questo di allinearmi a un’evoluzione fisiologica del rapporto con la disciplina che ho già visto succedere in amicx performer da tempo nella scena e nello stesso Marc Smith, che da sempre ha sostenuto la competizione unicamente come trucchetto/dispositivo per mantenere alta l’attenzione degli spettatori. Negli ultimissimi anni ho potuto osservare un’omologazione del linguaggio su una certa metrica/cantilena e tematiche/strategie vincenti per ottenere successo di pubblico, che ho cercato anche di mettere in luce in qualche riflessione. Il gioco e la creazione di comunità rimane un valore indiscusso, ma l’importanza di un rinnovamento continuo di linguaggi e sperimentazioni vale la pena di tenerlo a mente.
Il tuo volume La risposta estetica nel poetry slam (Mille Gru, 2022) tratteggia alcune linee attorno cui emergono gli stilemi della tanto contestata, almeno a livello concettuale, slam poetry intesa come genere. Quali pensi che possano essere gli aspetti di questo genere che più spiccano, che potenzialmente potrebbero generare istinto d’imitazione a una nuova penna che si avvicini al format? Alla luce del fatto che è confermando gli stilemi che un genere in contemporanea prende più forma e rallenta la sua evoluzione, ci sono considerazioni al riguardo che vorresti portare a questa ipotetica giovane penna?
Questa domanda è difficile, perché certo, non ci vuole niente, come ho fatto nella risposta precedente, ad affermare che bisognerebbe rinnovarsi: ma come? Mi vengono in mente due cose. Una è che quando io ho iniziato avevo a disposizione esempi molto diversi di chi faceva slam nella scena italiana, che andavano dal registro colloquiale e ritmo lento di una confessione ai cosiddetti participation poems in cui viene richiesta la collaborazione del pubblico, dalle sperimentazioni di sound poetry mediate dal beatbox allo storytelling, dalla metrica chiusa allo speech, dal plurilinguismo colto al rap a cappella, dalla postura comica alla danza poesia. Tutte queste modalità erano speciali, nuove e molto caratterizzate. Oggi mi sembra che la tendenza sia di farne una sintesi per avere nel repertorio tutto quello che serve con gli ingredienti studiati col misurino. Certo, magari col pubblico funziona, ma mi sembra fondamentale tornare alla questione della motivazione: perché decidi di dire questa cosa che hai da dire proprio in questo modo? Se la risposta è solo che funziona, si rischia di cadere nel rischio di un exploiting della poesia che a me non piace. Quest’estate mi è capitato di frequentare i circoli di lettura e scrittura creativa siciliani dei gruppi Parole Notturne e New Book Club in cui la motivazione della scrittura oltre l’adrenalina del fare la performance bene per la competizione o lo spettacolo mi è tornata chiara davanti agli occhi. La mia penna è stata più libera di divagare e mi ha commossa il tremolio della mano, tornato dopo molto tempo, nel presentarsi come voce incerta del risultato a un ascolto prezioso, senza bisogno di fare bella figura o di vincere anche solo una manciata di capitale simbolico. La seconda cosa che mi era venuta in mente è che nella mia lezione spettacolo che porto nelle scuole propongo un percorso dialettico per riflettere con lx studentx su che cosa è poesia. E gli esempi su cui discutiamo vanno dalle forme più canoniche/scolastiche del sonetto alla blackout poetry, dai calligrammi all’haiku. Il poetry slam ha secondo me la forza gigantesca di essere un trasformatore di poesia di cose che in un altro contesto non sarebbero necessariamente considerate tali. Perché sprecare questo potere? Già nel 2014 nel film 22 Jump Street fare slam si riduceva a: “Slam…poetry. Yelling! Angry?/Waving my hands a lot!/Specific point of view on/ things!”. È un peccato no? Teniamo i confini larghi il più possibile.
La tua esperienza in prima persona nella poesia performativa, sul doppio binario dello studio e della creazione, ti ha portata anche negli Stati Uniti per alcuni mesi. Com’è stata quest’esperienza, quali i punti salienti?
Nel 2023 avevo incontrato Marc Smith a Monza a una festa in suo onore organizzata da Mille Gru. Nel corso di un’ottima colazione, scambiammo lunghe chiacchiere in cui venne fuori questo progetto parallelo allo slam sulla traduzione performativa a cui Smith aveva lavorato negli ultimi anni che si chiama One Poetic Voice. Cercava nuovi ensemble di poeti di altre nazionalità con cui sperimentarlo. Parallelamente, un’altra importante voce accademica sulla slam poetry italiana, Alessandro Minnucci del collettivo Zoopalco, mi aveva buttato lì la proposta di venire in visiting alla University of Chicago, dove lui sta frequentando il corso di dottorato. I pianeti si stavano allineando troppo felicemente per lasciarmi scappare quest’occasione e abbiamo messo su una residenza artistica per lanciare l’Italian Connection del progetto One Poetic Voice. Con la regia di Marc Smith in persona (“so what?” urlerebbe lui) ho lavorato insieme ad Alessandro e allx poetx chicaghesi Andy Karol e Ryan Doyle in preparazione di un’esibizione al Green Mill (dove lo slam ha avuto inizio e lo show vibra da quarant’anni), che è presto diventato casa. Nei miei tre mesi di permanenza è venuto fuori un tour di dieci date tra Boston, New York, Providence e Chicago. Sempre all’intersezione di ricerca accademica e artistica, con Alessandro abbiamo portato un intervento insieme critico e performativo alla Brown University (sì lo so, pure a me parte nella testa la sigla di Gossip Girl) sulla dis-autenticazione dell’identità nella slam poetry italiana, che è stato per me un esempio estremamente significativo di ricezione positiva da parte della nuova generazione accademica che si occupa di letteratura italiana.
Uno tra i tuoi progetti, Ekphrasis, è un lavoro di residenza che mette in dialogo la poesia performata e entità tridimensionali quali luoghi e opere d’arte. Da cosa è nata quest’idea, e quali sono i potenziali del situare la performance in un dialogo così forte?
Ekphrasis è un progetto a cui sono molto affezionata, che è nato nella mia città natale, Sciacca, e si è poi espanso fino all’esperienza di Festivaletteratura a Mantova. Da quando sono piccola la proposta di input a partire dalla musica o dall’arte visiva ha guidato il fluire delle parole. Il quartiere di San Leonardo a Sciacca è povero e marginalizzato per il suo passato di quartiere ebraico e della prostituzione. Il festival di arte contemporanea Ritrovarsi per dieci anni si è occupato di sensibilizzare la cittadinanza al diritto di esistere e alla bellezza di questo posto, riempendolo di murales e installazioni artistiche. A partire dall’antichissima tecnica retorica dell’ecfrasi, che si pone l’obiettivo di comporre un testo in grado di rivaleggiare in forza espressiva con l’immagine, ho iniziato a collaborare col festival scrivendo e performando pezzi a partire dalle opere del quartiere prima da sola e poi in residenza artistica con diverse voci LIPS. Dopo due anni a San Leonardo il progetto è stato adottato nel 2023 da Festivaletteratura nella doppia sede del quartiere urbano di Lunetta e tra gli immensi affreschi di Giulio Romano a Palazzo Te. In tutte queste esperienze un tour guidato tra le opere e le performance accompagna il pubblico in una ricezione viva e partecipata, molto diversa dal posare rapidamente lo sguardo e leggere un pannello con una breve didascalia.
Tra le tue attività con la poesia c’è anche quella laboratoriale, sia con degli incontri one-shot che in percorsi più lunghi, perlopiù con ragazzə in età scolare. Quali constati essere gli effetti del tuo modo di portare la poesia su di loro? Ripescando l’ipotetica penna in erba della terza domanda, cosa cerchi di trasmettere con più importanza a chi ti ascolta, in questi incontri?
Lx ragazzx che incontro ai laboratori sono spesso già convinti di non potere incidere con la loro voce sul mondo, di non contare niente nel sistema, che in ogni caso non li ascolterà nessuno. Quello che propongo allora è uno scardinamento graduale di questa convinzione. Il poetry slam ha il merito gigantesco di aver messo in discussione l’establishment: nessuna giuria tecnica decide chi merita di essere poeta e chi no, il microfono è accessibile per tuttx e qualunque spettatorx ha il diritto di dire lì per lì che il suo giudizio conta quanto quello di qualsiasi esperto (che sarebbe comunque altrettanto idiosincratico). La poesia è di tuttx e per tuttx. Certo, a volte deve essere difficile e i livelli di comprensione variano a seconda degli strumenti che si sono affinati, ma la possibilità di incontro deve essere aperta. All’ipotetica penna/voce in erba io consiglierei di prendersi tutto lo spazio di cui sente il bisogno, di allenarsi a dare ascolto a chi lo chiede e di tenere viva la consapevolezza che le parole contano e hanno il potere di farci visitare realtà che altrimenti rimarrebbero opache nell’ottundimento della vita quotidiana. La poesia e la creatività in generale è una chiave di accesso a uno stadio successivo, più profondo della comunicazione, della comprensione e della possibilità di fare e disfare il mondo.
poi
cordiali saluti, hakuna momasa, ah no scusate quest’intervista non è un pezzo di Filippo Capobianco, ma se per caso cercate formule di cortesia giuste per le vostre lettere vi consiglio moltissimo questo video.
Eleonora