Interviste

Intervista a Giuseppe Piccolo

Nato a Torre del Greco nel 1999, Giuseppe Piccolo dialoga sin da giovane nel mondo con la scrittura e già nel 2017 vince il premio “Masio Lauretti” e il premio “Giovani per la Poesia”. A marzo 2024 conosce il mondo del poetry slam diventando in pochi mesi prima campione regionale in Campania e poi nazionale del circuito LIPS. A fronte di questa accelerata velocissima, lo abbiamo raggiunto per parlarne un po’.

Ciao Giuseppe, benvenuto. Dunque, partiamo dall’elefante nella stanza? Pare che tu sia il nuovo campione nazionale di poetry slam. Come ti senti al riguardo? Con che aspettative sei arrivato alle finali a Milano?

Ciao Isidoro, fortunatamente vedo anch’io questo grosso mammifero. Sono arrivato ai campionati nazionali con quella volontà silenziosa di portare il massimo da dei testi che avevo imparato a maturare negli ultimi mesi. Le aspettative c’erano, è inutile mentirsi con epiteti ipocriti, ma più che verso i risultati erano inquadrate sui testi stessi. Ho vissuto per tutto il periodo di preparazione alle finali, e durante le finali stesse, la necessità di restituire alle parole l’onestà con cui loro erano arrivate a me. Ciò che ne è arrivato è stato invece palesemente disonesto, le parole hanno ancora una volta preso la scena, mangiato ciò che c’era di commestibile del mio fegato e mi hanno concesso questo limbo emozionale che tanto somiglia ad un hangover, spero davvero di non riprendermi presto.

Il tuo rapporto con lo slam è, però, molto recente. Come lo hai incontrato? E quali erano i tuoi rapporti con la scrittura e con il performare dal vivo, prima di questo incontro? Quali pensi che siano gli aspetti del format dello slam con cui il tuo poetare più si trova comodo?

Io ho iniziato a scrivere da bambino, per gioco, con il classico carattere emulativo di chi cerca di sostituire sé stessi a ciò che apprezza. Potremmo chiamarla forse una sorte di iniziazione egomaniaca. Quella stessa egomania ha associato alla poesia la necessità di percepire le persone in una chiave lontana dal quotidiano. Da lì, inevitabilmente, sono approdato in quello spazio meraviglioso che è il teatro. Lo ho seguito con una curiosità viscerale per molto tempo, giocando a mettere me stesso nei panni di qualcun altro e, più spesso, qualcun altro nei miei panni. In questo gioco scambista di indumenti mi sono scontrato con il poetry slam con la splendida forza che hanno gli impatti casuali. Un invito di un amico che poi ha scoperto di non poterci essere, la comprensione stimolante di mio padre che mi ci accompagna lo stesso, un frainteso tra la candidatura ad un open mic e quella ad un torneo e, da lì, una serie di fotogrammi confusi che mi hanno fatto scoprire lo slam come uno spazio in cui sentire la mia volontà espressiva in una chiave che mi calzava a pennello, senza musiche o costumi di scena.

In questo tempo in cui hai un po’ sperimentato il format dello slam hai principalmente bazzicato due scene, quella campana e quella lombarda, prima e dopo il tuo trasferimento a Busto Arsizio. Hai percepito differenze tra i contesti? E da parte tua, percepite le energie del contesto in cui vai performando, come adatti quel che fai a seconda del palco e del pubblico che ti ritrovi?

Assolutamente sì. In fondo, è inevitabile pensare che i luoghi creino destinazioni concettuali e/o di approccio verso la poesia. Io ho avuto la fortuna di affacciarmi su entrambe le scene e questo è stato un enorme vantaggio. Se la scena campana mi ha insegnato quella volontà di un panorama in vivida costruzione di imparare a sbocciare, sottolineando concetti di resistenza, di poetica forte e netta, la scena lombarda, o almeno quella delle province che mi hanno ospitato, presentava una coscienza dell’oralità, una necessità chirurgica direzionata verso la novità. Io, a scanso di ogni stereotipo, ho cercato ad ogni modo di non adattarmi a nessuna scena, ma inesorabilmente sono finito per rubare dall’una i segreti dell’altra, e viceversa. O almeno spero.

In molti dei tuoi testi c’è una volontà rappresentativa che non parla solo di te ma anche del contesto da cui arrivi e delle persone che lo attraversano, coi loro modi di vivere e pensare. Pensi che, potenzialmente, il tuo portare queste scene nelle tue poesie possa essere d’aiuto al riguardo?

Detto in tutta onestà, io non credo davvero che le mie poesie possano essere d’aiuto verso il mio contesto, ma allo stesso tempo un po’ ci spero. Alle volte chi viene da contesti come il mio, o almeno ne è spettatore come me, coltiva quel bisogno di far sentire delle voci messe troppo spesso in sordina, perché poco gloriose o addirittura considerate afone. Ciò che racconto probabilmente non cerca di sostituirsi a quelle voci, ma di riuscire a condividere con chi ascolta questo maledetto senso di colpa che generano i loro echi, rimbombando, nella mia testa.

Visto che il tuo viaggio nel performare poesia, per quanto partito col botto, è solo che appena cominciato, ora che farai? Hai già in programma qualche progetto specifico? Nonostante l’ingombrante titolo nazionale, quanto spazio vorrai dare alla poesia nel tuo futuro?

La poesia performativa è stata una scoperta grandiosa, ed ancora più grandioso è stato il numero di amici che mi ha fatto incrociare. Non credo che riuscirò a liberarmi facilmente di questo simpatico mammifero che mi abita la testa, anzi credo che lo porterò al mio fianco ancora per un po’. Sto lavorando per far sì da unire ciò che ho costruito in questo piccolo periodo e riportarlo alla sua origine, alle persone, con quelle persone che mi hanno accompagnato fino in fondo.